Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
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СКАЧАТЬ dell'una parte e dell'altra furono feriti e morti.

      In questo stato di cose, i Deputati, avendo grandissimo riguardo di non incorrere in qualche atto di ribellione, stavano in continui consigli; e per dimostrare la debita fedeltà verso l'Imperadore drizzarono sopra il campanile di S. Lorenzo l'insegna con l'armi dell'Imperio, e vollero, che siccome gli Spagnuoli gridavano Imperio e Spagna, similmente il Popolo all'incontro gridasse Imperio e Spagna. Oltre di ciò mossero il Principe di Bisignano, ed altre persone amate dal Vicerè, che trattassero con lui di fare una tregua; e che si contentasse di non fare delle cose passate dimostrazione di castigo verso nessuno, insino a tanto, che non avesse sopra di ciò avvisato l'Imperadore. Del che il Vicerè si contentò, e fu risoluto che la città da sua parte mandasse uomo deputato a dar informazione del fatto a Cesare, e che il Vicerè mandasse un altro da sua parte; il quale vi mandò il Marchese della Valle Castellano del Castel Nuovo, con lettere dirette a Cesare, nelle quali lo ragguagliava fra l'altre cose, che l'Inquisizione non si comporterebbe affatto in questo Regno, come in Ispagna, per molte e molte cagioni; onde bisognava che non se ne parlasse, per cancellare questo nome di Unione, che al presente s'era cominciato. La città, come si è detto, vi mandò il Principe di Salerno con Placido di Sangro; e partirono questi per le poste a' 28 del medesimo mese di maggio; ma il Principe trattenutosi in Roma in visite ora di questo, ora di quell'altro Cardinale, fece sì, che il Marchese della Valle giungesse prima in Norimberga, ove Cesare in quel tempo dimorava.

      Nel tempo di questa tregua si stava dall'una parte e l'altra su l'avviso e si tenevano corpi di guardia con le loro sentinelle nelli lor Forti, praticando però i soldati col popolo, ed il popolo con loro, benchè il popolo armato e sollevato non stimava, nè ubbidiva gli Ufficiali della giustizia, anzi non si riteneva sovente d'ingiuriarli e maltrattarli. Ciò che veduto dalli Deputati, dubitando, che non ne nascesse qualche ribellione, andarono al Vicerè a' 15 giugno con Giudice e Notaro a richiederlo, che volesse tener cura della giustizia, come prima, poich'essi erano nella medesima ubbidienza di prima, dalla quale si protestavano non volersi mai levare e che offerivano ostaggi per sicurtà de' suoi Ufficiali. Ma il Vicerè, che vedeva, che tutto questo facevano per lor cautela, perchè in fatti non poteva Ufficiale alcuno comparire per la città per l'insolenze del popolo, che stava in schiere armato, non volle farlo, dicendo, che l'ubbidienza loro era in parole, e non in fatti; onde per pubblico decreto della città fu determinato, che si facesse un corpo di guardia, e che andasse per la città di giorno e di notte pigliando i delinquenti, ed imprigionargli nella Vicaria, acciocchè del Reggente e da' Giudici, che in quel Palazzo erano racchiusi, fossero puniti; e fu posta una Compagnia di soldati fuori del suddetto Palazzo, acciocchè niuno ardisse d'accostarvisi per rompere le carceri, ovvero per far violenza agli Ufficiali. Ma questa diligenza nulla giovava, imperocchè l'audacia della plebe era tanto sfrenata, che nè anco temevano gli Ufficiali della Città.

      In questo il Vicerè trovò una via per divider l'Unione, e per iscoprire se nella Città vi fosse qualche trattato di ribellione; e fu che scrisse un comandamento a tutti i Baroni, che dovessero per servigio di sua Maestà venire ad alloggiare nelli Quartieri degli Spagnuoli sotto pena di ribellione. Fu fatto sopra di ciò consiglio nella Città, e conchiuso, che vi andassero a lor piacere. Tutti vennero dal Vicerè, e furono alloggiati a que' Quartieri e provveduti a' lor bisogni. Il dì seguente la Città per risarcir quella rottura confermò l'Unione e mandò Ambasciadori al Vicerè, richiedendo, che desse a tutti alloggiamento, perchè per servigio di Sua Maestà tutti, non solo i Baroni e Titolati, volevano venire, ed alloggiare in que' Quartieri; al che il Vicerè ridendo, rispose, che l'ambasciata, ancorchè in tempo d'està, era riuscita troppo fredda.

      Per questa cagione, e per non potersi vivere sotto quel corrotto governo, ogni uomo da bene se ne usciva dalla Città con la lor famiglia, e niuno vi sarebbe rimaso, se i Deputati non avessero poste le guardie alle Porte; ed era cosa compassionevole a vedere la Città vota de' suoi Baroni e d'onesti Cittadini, e piena all'incontro di plebe arrogante e d'infiniti fuorusciti, i quali scorrendo, ora in questo, ora in quell'altro luogo, facevano mille insolenze, e chi gli riprendeva era ingiuriato e chiamato traditor della patria, e lo forzavano e pigliar l'armi, ed andar con essi loro; ma chi egregiamente si mostrava in piazza in giubbone, o armato, e si offeriva di morir per la patria, minacciando il Gigante del Castel Nuovo (così chiamavano D. Pietro di Toledo) quello onoravano, e chiamavano patrizio, e degno d'esser Deputato della città; ed allora già il governo de' Deputati si cominciava a dissolvere, e ne nasceva il governo di pochi e potenti, e quasi un Triumvirato di Cesare Mormile, del Prior di Bari e di Giovanni di Sessa, restando i Deputati di solo nome per riputazione della Città.

      Stando le cose in questo stato, vennero al Vicerè Ambasciadori del Duca di Fiorenza suo genero, della Repubblica Senese, e dell'altre Potenze d'Italia, con offerirgli soccorso di gente e di denari; a' quali il Vicerè mandò a ringraziare, accettando solamente l'offerta del Duca di Fiorenza, al quale fece sentire, che gli tenesse in ordine cinquemila pedoni, e che bisognando, per mare si conducessero in Napoli. Sparsasi di ciò la fama per la città, i Deputati dubitando non essere all'improvviso assaltati, determinarono anch'essi di assoldare diecimila soldati, i quali fur subitamente raccolti per la moltitudine de' villani e de' fuorusciti, che erano entrati nella città. Fecero anche rassegna di tutto il popolo, e fur trovati quattordicimila uomini atti all'armi la maggior parte archibugieri. Questo così fatto esercito era senza Capo; imperocchè i Deputati non lo vollero mai fidare ad alcun Capitan Generale, per dubbio che non s'impadronisse della Città, e facesse qualche rivoluzione, ma lor medesimi lo governavano nel miglior modo che potevano, e se ne servivano solamente per difendere lor frontiere, in caso, che fossero assaltati; ma essi essendo senza timore di superiori, si mandavano per assaltar gli Spagnuoli ne' lor Quartieri, ed a' 21 luglio si attaccò tra loro una crudelissima zuffa, e la città toccò la Campana ad arme: e tutta la plebe corse alla volta degli Spagnuoli con grand'impeto insino alla Rua Catalana, dove uccisero molti Spagnuoli, e particolarmente n'uccisero sedici, che stavano i miseri mangiando nell'Osteria del Cerriglio. Il Vicerè quando questo intese, fece dare anch'egli all'arme, e posta la fanteria Spagnuola in squadrone la mandò guidata dal Balì Urries a ributtargli in dietro, il che fu fatto con gran prestezza; imperocchè a forza d'archibugiate gli fecero ritirare da tutto il Quartiere di S. Giuseppe, e della Rua Catalana insino al Capo della piazza dell'Olmo; e perchè dalle case furono feriti molti Spagnuoli per li fianchi, entrarono per forza dentro, rompendo le porte e mura, e finalmente presele, le posero tutte a sacco, ed a fuoco; e venuta la notte furono posti molti soldati Spagnuoli nella Dogana, ed in altre case forti. Presero anche il Convento di S. Maria la Nuova per forza, perchè vi erano molti soldati italiani, e vi fu posto dentro in guardia il Capitan Orivoela con una compagnia La città all'incontro fortificò S. Chiara, il Palazzo del Principe di Salerno, del Duca di Gravina, e Monte Oliveto e quel del Segretario Martirano, ponendo dentro molti archibugieri, ed alcuni pezzi d'artiglieria minuta. Fatto questo, il Vicerè comandò che gli Spagnuoli non uscissero fuora delli loro Forti, e che attendessero solamente alla lor difensione; ma il popolo, essendo senza Capo, e senza timore, non si fermava mai ne di dì, ne di notte, dando sempre all'armi, ed assalti agli Spagnuoli, ed a guerra bandita gli danneggiavano, ed ammazzavano crudelmente insieme con gl'Italiani aderenti del Vicerè, saccheggiando le lor case e vigne, e tal volta scorrevano insino a Pozzuoli a danneggiare le cose del Vicerè, ed insino a Chiaja ad assaltare i Cavalieri, che per ordine del Vicerè stavano ivi alloggiati. Durò questa crudel guerra quindici giorni, ne' quali dì e notte continuamente si combatteva, le artiglierie delle Castella e delle Galee, non perdendo tempo, tiravano nella Città, dovunque si vedeva gente armata; e già il popolo incominciava a gridare, che l'artiglieria della Città si ponesse in ordine per combattere Castel Nuovo, e gli altri Forti; ma li Deputati non lo vollero in modo alcuno consentire, parendo loro che questo sarebbe stata ribellione aperta. Questa guerra si dovrebbe chiamar civile, e per ciò si avrebbe dovuto tacere il numero delli morti in essa; poichè Giulio Cesare non volle scrivere il numero degli uccisi da lui nelle guerre civili; ma non mancarono Scrittori, i quali, senza aver questo ritegno, ne hanno de' loro nomi empite le carte.

      Ma ecco, stando la guerra nel suo fervore, che ritornarono da Cesare il Marchese della Valle e Placido di Sangro. Incontanente fu fatta tregua per intender la volontà dell'Imperadore, la qual Placido spiegò alla città nel pubblico Consiglio, dicendo che Sua Maestà СКАЧАТЬ