Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
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СКАЧАТЬ rel="nofollow" href="#n64" type="note">64. Si procedè alla confiscazione de' loro beni, ma non senza contrasto; poichè i Napoletani volevano far valere la Bolla di Giulio III accordata loro da Cesare, per la quale, come s'è detto, non poteva nel Regno farsi confiscazione de' beni degli Eretici; ciò che diede occasione a quelle dispute, che leggiamo presso i Reggenti Salernitano, e Revertera nella causa d'Alois65.

      Per questi rigorosi castighi, e dal vedersi andare d'accordo le Corti Ecclesiastica e Secolare, i Napoletani, oltre lo spavento che n'ebbero, concepirono timore, non fosse questo un concerto di mettere con tal pretesto in Napoli il Tribunal dell'Inquisizione cotanto da essi abborrito: ond'essendosi per la città di volgata fama, che il Duca d'Alcalà trattava di voler poner nel Regno l'Inquisizione secondo l'uso di Spagna, e sbigottita da tante citazioni, che si facevano dal Vicario sotto pena di confiscazione de' beni, molte famiglie colle loro robe se n'uscirono da Napoli, e per le decapitazioni e bruciamento seguito al Mercato di Alois e Gargano, postasi la città in bisbiglio, dubitandosi non si venisse alle armi, tutta la piazza della Rua Catalana e suo quartiere fu disabitato66. Stette la Città in rivolta per molti dì e mesi, nel cui tempo furono tenute molte Assemblee dalle Piazze, le quali finalmente deputarono alcune persone, perchè andassero a parlar al Vicerè, ed a esporgli liberamente i loro sensi intorno a non voler permettere, seguendo l'esempio de' loro maggiori, Tribunale alcuno d'Inquisizione. Il Duca, come dotato di somma bontà e prudenza, conoscendo quanto a' Napoletani fosse odiosa tal novità, e quanto grandi le difficoltà che si sarebbero incontrate d'introdurla, e le fastidiose conseguenze, che partorì sotto il governo del Toledo, vi pose prudentemente silenzio e se n'astenne.

      Ma la città non contenta di ciò, volle spedire al Re in Ispagna un suo Legato, a pregarlo, che in Napoli e nel Regno non si ponesse mai Inquisizione, nè, secondo il Concordato fatto nel Pontificato di Giulio III, potessero confiscarsi i beni degli Eretici. Si trascelse il famoso Paolo d'Arezzo, prima splendore nel nostro Consiglio di S. Chiara, poi della Religione Teatina, e finalmente Arcivescovo di Napoli e Cardinale. Ancorch'egli ritiratosi dal Foro ne' Chiostri, ne rifiutasse il peso, a' conforti del Cardinal Carlo Borromeo e del Papa istesso, accettò finalmente l'ambasceria67. La città oltre alle sue lettere al Re drizzate, diegli istruzioni bastanti, e la Bolla di Giulio III, donde costava del Concordato suddetto68. Partito egli in quest'anno 1564, e giunto nella Corte di Madrid, fu dal Re caramente accolto, ed avendogli esposti i desiderj della città, con presentargli le sue lettere, il Re liberalmente concedè a' Napoletani quanto chiedettero, ordinando, che nel Regno non si ponesse giammai Inquisizione, nè si dovesse praticare altra maniera di giudicio nelle cause di Religione, che l'ordinaria. Scrisse per ciò in questi sensi tre lettere, due alla città sotto li 10 marzo del 1565, ed un'altra sotto la medesima data al Duca d'Alcalà Vicerè, contenente la medesima dichiarazione, amendue rapportate dal Chioccarelli69, nelle quali fra l'altre parole si leggono queste: Por tenor de la presente decimos, y declaramos, no aviendo ne ser nuestra intention, que en la dicha Ciudad, y Reyno se ponga la Inquisicion en la forma de Espanna; si no que se proceda por la via ordenaria; como asta a qui, y que assi se observerà, y complirà con efecto con lo de adelante, sin que en ella aya falda: ed altrove: De manera que los Ordinarios agan bien su ofìcio, como se deve.

      II P. Arezzo, tornato dalla sua ambasceria, fermossi in Roma, donde mandò alla città di Napoli relazione di quanto felicemente avea adoperato a Madrid e del buon successo di quell'affare: onde cessò ogni sospetto d'Inquisizione, restando i Napoletani contentissimi della benignità e clemenza del Re.

      Ma in questi tempi con tutto ciò non eransi tolti gli abusi dell'Inquisizione di Roma. In vigor di queste Carte Regali gli Ordinari solamente potevan procedere con ordinarie maniere ne' delitti di Religione contra i loro sudditi: ma Roma proseguiva a procedere come prima, inchiedendo le persone del Regno, e sovente con assicurarsene, e far trasmettere insino a Roma i processi ed i carcerati. Egli è vero, che niente si faceva senza provvisione del Vicerè; e le commessioni, che venivano da Roma non s'eseguivano senza che prima non fossesi a quelle interposto l'Exequatur Regium, nel che il Duca d'Alcalà vi fu vigilantissimo. Ma quanto s'usava rigore ne' casi, che si fosse eseguita qualche commessione di Roma senza il Regio Exequatur, con ordinarsi la cassazione di tutti gli atti, e la scarcerazione de' carcerati, di che alcuni esempj si leggono del Duca d'Alcalà presso il Chioccarello70; altrettanto, conceduto che s'era il Placito Regio, con facilità si davano alle richieste degl'Inquisitori di Roma favori ed ajuti, permettendo, che da' loro Commessari si fabbricassero come Delegati i processi, si carcerassero gl'indiziati, e si vendessero le loro robe per la rifazione delle spese; insino a permettere, che i carcerati si portassero in Roma, di qualunque condizione e qualità quelli si fossero.

      È assai celebre l'inquisizione fatta dal S. Ufficio di Roma contra il Marchese di Vico, contra il quale fin dall'anno 1560 fu destinato un Commessario Appostolico, il quale nella città di Benevento ne prese informazione, citando per edictum testimoni de' luoghi circostanti, con esaminarli contra di quello. E mandato il processo in Roma, risoluta da quella Congregazione del S. Ufficio, tenuta dinanzi al Papa, la carcerazione del Marchese, il Cardinale Alessandrino a dì primo novembre del 1564 scrisse una lettera al Duca d'Alcalà, pregandolo, che gli mandasse carcerato nel S. Ufficio il Marchese di Vico con buona guardia, o che gli facesse dare grossa sicurtà di presentarsi in quello, essendogli stato così ordinato dai Cardinali suoi Colleghi in presenza del Papa; ed il Vicerè non ebbe riparo d'ordinare alla Vicaria, che facesse dar malleveria al Marchese di ducati diecimila di presentarsi al S. Ufficio di Roma71.

      Degli avvenimenti di Galeazzo Caracciolo Marchese di Vico, come a questi tempi in Europa assai divolgati, non si dimenticò favellarne in due luoghi delle sue Istorie l. 9 et 84 il Presidente Tuano: e poichè da' medesimi si dimostra quanto ne' petti umani possa la forza della Religione, e sono in gran parte ignoti a' Napoletani, poichè niuno de' loro Scrittori no fece motto, ed il libricciuolo della di lui vita stampato nel 1681 in Ginevra nell'idioma Franzese, è si raro e a molti ignoto, che non è così facile averne copia, sarà bene qui distintamente rapportarli. Galeazzo Caracciolo nacque in Napoli nel mese di gennaio dell'anno 1517 da Nicol'Antonio, ovvero secondo il linguaggio de' Napoletani, da Colantonio Caracciolo Marchese di Vico: sua madre fu una Dama di pari nobiltà dell'illustre famiglia Caraffa; la quale ebbe per zio materno Gio. Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, assunto poi al Pontificato sotto nome di Paolo IV. Non ebbe altri figliuoli maschi, che Galeazzo, il quale appena giunto all'età di venti anni fu dal Padre maritato con D. Vittoria figliuola del Duca di Nocera, che gli portò scudi ventimila di dote, dalla quale in processo di tempo ebbe sei figliuoli, quattro maschi e due femmine, ma non tutti sopravvissero al Padre. Fu impiegato fin dalla giovanezza a' servigi dell'Imperatore Carlo V, il quale avendolo creato Gentiluomo della chiave di oro, lo ritenne per qualche tempo presso di se nella Imperial sua Corte, ma tornato poi in Napoli in tempo che la dottrina delli nuovi Riformatori era in quella Città occultamente insegnata da Pietro Martire Vermiglio, prese amicizia con Giovanni Valdes Gentiluomo spagnuolo, il quale, siccome di sopra fu detto, era il principal Ministro, di cui il Vermiglio si valeva, come più istrutto della nuova dottrina, spezialmente intorno alla giustificazione, e che avea fatto molto studio sopra l'Epistole di S. Paolo; ma sopra tutto perchè avea gran dimestichezza e famigliarità con molti Nobili napoletani. Questi trasse molti alla sua credenza, con farli accorti di alcune vane superstizioni e dell'errore della propria giustificazione dell'uomo per li meriti proprj, e fra gli altri Galeazzo; ma colui che diede l'ultima spinta per farlo crollare, fu un Gentiluomo chiamato Gio. Franceso Caserta, suo parente, il quale lo strinse co' suoi discorsi ad assentire alla dottrina della giustificazione per i meriti di Gesù Cristo e l'indusse ad ascoltare i Sermoni di Pietro Martire, che faceva in S. Pietro ad Ara sopra l'Epistole di S. Paolo, i quali maggiormente lo confermarono. Ciò avvenne nell'anno 1541 quando Galeazzo non avea che 24 anni.

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<p>65</p>

Salernit. decis… Revert. vol. 1 decis. 27.

<p>66</p>

Summ. l. c.

<p>67</p>

Chioccar. in Archiep. Neap. et in M. S. Inquis. Off.

<p>68</p>

Joana. Ant, Gangian. in Histor. Vita P. de Arelio, c. 16.

<p>69</p>

Chioccarel. M. S. Giurisd. tom. 8.

<p>70</p>

Chioc. loc. cit. et to. 4.

<p>71</p>

Chioccar. loc. cit. tom. 8.