Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
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СКАЧАТЬ a Cesare Mormile nemico del Vicerè, ed a Giovanni di Sessa Eletto del Popolo; ma l'autorità del Priore e del Mormilo era quella, che governava il tutto.

      Inasprì maggiormente gli animi un nuovo accidente; poichè stando nel Seggio di Portanova alcuni giovani nobili di quel Seggio, passarono alcuni Alguzini di Vicaria, che conducevano prigione uno per debiti; e perchè la città stava sollevata e tutta in arme, stimandosi poco li Ministri di giustizia, que' Nobili trattennero gli Alguzini, e gli dimandarono per qual cagione portavano colui prigione: quel ribaldo alzando la voce, disse; Signori, questi mi portano prigione per conto d'Inquisizione; per le quali parole que' giovani leggiermente si mossero a farlo fuggire dalle loro mani. Saputosi ciò dal Reggente della Vicaria, ne prese cinque di coloro, de' quali tre se ne trovarono colpevoli, e subito ne avvisò il Vicerè. Costui subitamente da Pozzuoli, ov'era, si portò in Napoli, ed a' 23 di questo mese di maggio comandò, che que' tre giovani fossero portati in Castel Nuovo, e chiamato il Consiglio Collaterale, ancorchè il famoso Cicco di Loffredo Presidente allora Reggente non vi consentisse; credendo che con usar sopra di loro estremo rigore s'avvilissero i Nobili, siccome il caso di Focillo avea fatto avvilire i Popoli, volle in tutte le maniere, che fossero condennati a morte ad uso di Campo; il che fu fatto, onde il dì seguente de' 24 ad ore 17 fur cacciati fuor del Castello e condotti a quel luogo ov'è solito piantare il talamo; e perchè il caso richiedeva prestezza, fur posti inginocchioni in terra, e scannati ad uso di campo.

      Il Vicerè fatto questo, lusingato che con mostrar intrepidezza dovesse abbattere la superbia de' sediziosi, cavalcò subito per la Città accompagnato da molti Cavalieri spagnuoli e napoletani e con molti Soldati a piedi. Intanto i popolani, serrate le case e le botteghe, eransi posti tutti in arme e gridando, bestemmiando e minacciando andavan per la città a guisa di baccanti; per lo che i Deputati, quando intesero la risoluzione del Vicerè, mandarono a pregarlo, che per allora volesse differire di cavalcare, dubitando, che alcuno scellerato non avesse ardimento d'offenderlo, essendo il Popolo tutto in arme; con tutto ciò il Vicerè non volle lasciar di cavalcare, parendogli, che ciò sarebbe stata cagione di dar maggior animo a' sediziosi; onde i provvidi Deputati mandarono Cesare Mormile ed altri Cavalieri innanzi lungi dalla cavalcata, a raffrenare il Popolo, ch'era in grosse schiere armato per le strade, acciocchè non si movessero per niente contra il Vicerè. Ma fu cosa stupenda a vedere, che se bene non facessero movimento alcuno contra di lui, niente di meno a passar per le strade, non fu trovato uomo, nè picciolo nè grande che gli facesse con la berretta, o col ginocchio segno alcuno di riverenza, quando prima, sempre che cavalcava per la città, ogni uno correva a salutarlo con sviscerata affezione. Tanto l'orrore, che aveano all'Inquisizione, avea mutati gli animi loro.

      Questa rigorosa giustizia e questa cavalcata del Vicerè imputata a disprezzo e poco conto, diede l'ultima spinta a maggiori sollevazioni e tumulti; poichè dubitando, che il Vicerè non volesse prender vendetta di tutti coloro, che gli aveano contraddetto al ponere l'Inquisizione, nella stessa maniera, che avea fatta con li riferiti tre meschini giovani, si posero nell'ultima disperazione; ed il Mormile, ed il Prior di Bari, per far credere al Popolo essere questo il disegno del Vicerè, fecero ad arte sparger voce, che il Vicerè mandava una Compagnia di Spagnuoli a prender prigione Cesare Mormile e tutti gli altri, che l'aveano contraddetto al poner l'Inquisizione. A questa voce fu sonata subito la Campana di S. Lorenzo ad arme, ove concorsero infiniti colle armi alle mani, con prontezza di morir tutti per la libertà della loro patria: allora i Capi prendendo l'occasione, e vedendoli così invasati, fatto pubblico Consiglio, ottennero facilmente di far conchiudere in quello più cose. Primieramente fu determinato, che si togliesse al Vicerè ogni ubbidienza. II. che per tal effetto si facesse fra' Nobili e Popolari una Unione, con proposito di morir tutti, o niuno. E per III. che si spedissero Ambasciadori a Cesare.

      Fu fatta l'Unione, e per pubblico istromento firmata, e fu mandato un Trombetta ad intimarla a tutti que' Cavalieri napoletani, che s'erano racchiusi col Vicerè nel Castello, con protesta, che se non andavano a celebrar l'Unione con loro, metterebbero fuoco alle lor case e poderi; perlochè il Vicerè diede a tutti licenza, che v'andassero, per conservare i loro beni. Fu celebrata l'Unione, e preso un Crocifisso, andarono in processione per la città mescolatamente nobili e popolari, poveri e ricchi, titolati e non titolati, gridando; Unione, Unione in servigio di Dio, dell'Imperadore e della città; ed acciocchè ognuno entrasse in questa Unione, fu inventato, che chi non v'entrava, era chiamato Traditor della Patria; la qual fu di tanta forza, che tutti, grandi e piccioli, entrarono in quella, come in una venerabile Religione; perlochè il Vicerè ridendo soleva dire, che gli rincresceva molto di non aver potuto entrare in quella Santa Unione.

      Fu eletto per Ambasciadore della città a Cesare, Ferdinando Sanseverino Principe di Salerno nemico del Vicerè, il quale pieno di vanità e leggerezza, in cambio di scusarsene, accettò con giubilo la carica; a cui fu aggiunto Placido di Sangro, e portatosi subito dal Vicerè a licenziarsi, ancorchè questi gli assicurasse, che se egli andava per l'Inquisizione non era bisogno, perchè egli gli dava parola di far venire privilegio dell'Imperadore di non mai metterla; con tutto ciò rispondendogli, che non poteva lasciar d'andare per averlo promesso alla città, se ne andò subito a Salerno per ponere in ordine la sua partita. Il Vicerè stette tutto quel dì nella porta del Castello per informarsi di quello che passava nella città, ed avuto avviso, che gli era stata tolta l'ubbidienza, e che non lo chiamavano più Vicerè, ma D. Pietro, voltatosi a que' Cavalieri, ch'erano seco, ridendo disse. Signori, andiamo a starci in piaceri; or che non ho che fare, perchè non son più Vicerè Di Napoli.

      Pietro Soave42 nell'Istoria del Concilio di Trento (ancorchè ciò si taccia da tutti gli Scrittori napoletani) narra, che la Città mandò anche Ambasciadori al Pontefice Paolo III, al quale, aggiunge, che i Napoletani si offerirono di rendersi, quando avesse voluto riceverli; e che Paolo, a cui bastava nutrire la sedizione, come faceva con molta destrezza, non parendogli aver forze per sostener l'impresa, avesse rifiutato l'invito; non ostante che il Cardinal Teatino Arcivescovo di quella città, promettendogli aderenza di tutti i parenti suoi, ch'erano molti e potenti, insieme coll'opera sua, che a quell'effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l'esortava a non lasciar passare una occasione tanto fruttuose per servizio della Chiesa, acquistandole un tanto Regno.

      Ma di questo fatto, che sarebbe stato di ribellione manifesta de' Napoletani, non vi è chi fra noi faccia memoria. Ed ancorchè il Duca d'Alba, e gli Spagnuoli lo tenessero per fermo; però il Pontefice Giulio III in una sua epistola rapportata dal Chioccarelli, diretta all'Imperador Carlo V, dove pregavalo a non far differire più la possessione dell'Arcivescovado di Napoli al Cardinal suddetto, lo niega costantemente, come diremo più diffusamente appresso. Ogni uno avrebbe creduto, che il Cardinal Pallavicino43 antagonista del Soave, dovesse ripigliarlo anche di questo; ma poichè quest'Autore, siccome è tutto al Soave contrario, ed opposto circa il ponderare i fini delle azioni, non già intorno alla verità de' fatti, ove sembra, che (toltone in alcune circostanze di poco rilievo) insieme concordino; così parimente il Pallavicino viene a confessare, che i Napoletani invitarono il Papa con larghe offerte a proteggerli;44 il quale però con pensiero egualmente pio e savio, non volle far movimento, conoscendo, com'e' pondera di suo capo, che l'acquisto di quel Regno temporale avrebbe messo a pericolo in tali tempi tutto il suo Regno spirituale; di cui il temporale è accessorio, e non durabile senza il sostegno dell'altro.

      Intanto il Vicerè dubitando, che quella Unione non partorisse qualche ribellione, massimamente vedendo, che gli Spagnuoli erano perseguitati ed uccisi, fece raddoppiare presidio nel Castel Nuovo. Il dì seguente, che fur li 26 di Maggio, i Capi del rumore sparsero fama per la Città, che il Vicerè disegnava di assaltare il Popolo e castigarlo, perchè avea a suon di campana dato all'arme, che parea spezie di rebellione; perlochè con prestezza fecero bastioni nella piazza dell'Olmo, ed in tutti i luoghi delle frontiere, misero gente a S. Maria della Nuova, e con gran inpeto corsero ad assaltar gli Spagnuoli dentro il quartiere. Il Vicerè, che di ciò ebbe avviso, comandò, che il Castelli giocassero con le artiglierie verso i luoghi, ove si vedeva raccolta gente armata, e mandò soldati spagnuoli alle frontiere a raffrenar l'impeto di quella СКАЧАТЬ



<p>42</p>

Soave lib. 3 ann. 1547.

<p>43</p>

Pallavic. lib. 10 cap. 1.

<p>44</p>

V. Gio. Battista Adriano, Hist. l. 6.