Название: En torno a la economía mediterránea medieval
Автор: AAVV
Издательство: Bookwire
Жанр: Документальная литература
isbn: 9788491346647
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Altri aspetti fondamentali erano il tempo e il ritmo del lavoro. Si lavorava, di norma, quindici ore al giorno, dall’alba alla compieta, le ore ventuno secondo l’attuale modo di misurare il tempo.
Faccio un piccolo inciso su questo aspetto: da tempo era entrato in uso l’orologio, strumento razionale, indispensabile all’ormai evoluto mondo del lavoro, che consentiva di superare gradualmente le abitudini indotte dalle antiche quanto incerte misure del tempo tramandate nei conventi e nelle chiese. Molti orologi in Italia erano simili a quello sulla controfacciata del Duomo di Firenze, splendidamente dipinto da Paolo Uccello negli anni Quaranta del Quattrocento. Il quadrante contiene tutte le ore del giorno; le ore ventiquattro non corrispondevano all’attuale mezzanotte astronomica ma, secondo lo stile italico, scadevano al tramonto di ogni equinozio ed erano dipinte sulla parte inferiore dell’orologio (in corrispondenza delle nostre ore sei).4
Torniamo al tempo di lavoro; ho detto che la giornata era di quindici ore con tre intervalli: uno per asciolvere cioè per fare una piccola colazione, uno per il pranzo attorno a mezzogiorno (alla sesta delle ore canoniche) e uno per la merenda all’ora nona, cioè intorno alle quindici.
Le giornate lavorative nell’anno erano mediamente duecentocinquanta con un ritmo settimanale che si aggirava intorno a cinque giorni di quindici ore e il sabato di ben dieci ore.
Questi pochi elementi farebbero immaginare una dimensione pesantissima del lavoro, ma non era così; non lo era grazie al ritmo naturale delle attività che dava spazi alle relazioni umane e consentiva interruzioni legate a necessità personali. Il tempo del lavoro si identificava con quello della vita, l’uno era parte dell’altro. Allora non esisteva il nostro concetto di tempo libero: il tempo dello svago non si contrapponeva a quello del lavoro ma alla continua fatica di vivere; la possibilità di prendersi consolazione poteva investire qualsiasi momento del quotidiano, non solo nelle ore e nei giorni di festa ma anche in quelli della bottega.5
Gli studi che ho condotto su registri contabili di molte aziende mi hanno convinto del fatto che il ritmo del lavoro fosse estremamente diseguale. Diseguale l’intensità con cui ci si applicava alla produzione, diseguale il numero delle giornate lavorative nel mese. Ciò dipendeva non solo dalla diversa distribuzione dei giorni festivi, ma anche da altri fattori come i comportamenti della committenza che poteva provocare brusche accelerazioni e nuovi freni al lavorio della bottega; anche l’avvicendarsi delle stagioni e le cadenze della campagna potevano provocare mutamenti dei ritmi con il temporaneo trasferimento di manodopera cittadina. Gli stessi artigiani, spesso piccoli proprietari, erano talvolta costretti a lasciare la bottega per recarsi nella loro presa di terra.
Infine erano assai frequenti le assenze dal lavoro per motivi personali. Alcune aziende ne tenevano memoria in appositi libri «degli scioperii». Se ne conserva uno nel Fondo Datini.6 Scorrendo l’elenco dei conti accesi ai vari dipendenti, troviamo che le assenze erano relativamente frequenti e potevano durare da più giorni a poche ore. I motivi erano assai diversi: si era lasciato il lavoro per un pellegrinaggio o per andare alle terme di Montecatini; per andare a veder montare la campana del Duomo o per assistere un familiare, per andare in campagna o per governare il vino o partecipare a un lutto.7 Tali assenze determinavano una riduzione proporzionale o forfettaria del compenso stabilito all’inizio del rapporto di lavoro.
Insomma questi uomini, legati da un contratto a tempo determinato, entravano o uscivano dai laboratori d’accordo con il proprietario e nel rispetto delle esigenze del laboratorio.
Possiamo immaginare questa bottega, immersa nel tessuto urbano, come un punto di riferimento per i passanti, momento di sosta e di relazione sociale. La possiamo immaginare persino nella dimensione rappresentata da La bottega del falegname di Jean Bouchirdon, luogo in cui poteva raccogliersi la famiglia, spazio in cui i momenti di vita sociale non venivano mortificati dall’obbligo del lavoro.
I connotati di fondo della bottega bassomedievale rimasero sostanzialmente stabili mentre, proprio tra il Trecento e il Cinquecento, gli oggetti che uscivano da quei fondaci subirono significative trasformazioni nelle tipologie e nella qualità; ciò fu il frutto della evoluzione del potere di acquisto e quindi dei modelli di consumo.
All’inizio del periodo considerato, la domanda interna era essenziale, tipica di una realtà in cui la ricchezza era fortemente polarizzata; le attività produttive, seppure differenziate, erano lo specchio di quella situazione. L’immagine internazionale della manifattura fiorentina era essenzialmente rappresentata dai tessuti di lana, dagli eccellenti panni fatti di lane costose, tinti e rifiniti in modo magistrale. Mentre l’Arte di Calimala cedeva il passo all’Arte della Lana, quei panni pregiati che circolavano nel continente europeo e nel Mediterraneo concorsero in modo fondamentale alla crescita della ricchezza anche sostenendo l’ampliamento dei traffici commerciali delle grandi compagnie mercantili bancarie.
Il mutamento si venne realizzando con una certa gradualità che subì una forte accelerazione nei primi anni del Quattrocento. Crebbero le tipologie dei prodotti realizzati in città e, con la molteplicità produttiva, crebbe un complesso sistema di relazioni tra le botteghe, tra loro e le grandi aziende commerciali.
Dai tessuti e dalle fogge degli abiti agli strumenti più semplici della quotidianità; dal pettine alla valva di uno specchio, dai cassoni dipinti ai deschi da parto: erano oggetti di alto contenuto tecnico, uno più bello dell’altro, espressione di una sensibilità tutta rinascimentale. I manufatti più ricchi divennero testimoni di una forza economica e culturale, quella di Firenze appunto, che riusciva a imporre modelli di consumo ben oltre i propri confini, nelle corti e nei ricchi ambienti laici ed ecclesiastici europei.8
Il fenomeno coinvolse tutte le forme della produzione cittadina, dalle piccole botteghe alle più grandi imprese manifatturiere. Si pensi alle vicende del settore serico e auro-serico. Nel Trecento, i drappi di seta fiorentini e soprattutto quelli lucchesi e veneziani circolavano in Europa, ma perdevano la guerra commerciale con i tessuti di rara bellezza che venivano dall’Oriente, da Costantinopoli. Agli inizi del Quattrocento tale situazione cominciò a mutare.9 Per segnalare alcuni fatti emblematici, nel 1422, un’ambasceria fiorentina si recò in visita al «Soldano» d’Egitto; tra i suoi doni, oltre che venticinque pregiati pannilani, vi erano tessuti serici. Se quegli uomini decisero di offrire un simile dono a chi viveva nel cuore di un’alta e antica tradizione, dovevano essere consapevoli della conquistata abilità dei loro battiloro e setaioli.10 Nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, Bonsignore Bonsignori, un fiorentino che si trovava a Bursa, il più importante centro produttivo di tessuti serici e auro-serici della Turchia ottomana, scrisse che in quella città «Si lavorano più sete e drappi d’oro che in tutta Italia, non sono però sì belli».11 Dunque in quel periodo Firenze aveva conquistato СКАЧАТЬ