Название: La conquista di Roma
Автор: Matilde Serao
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070885
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Alle nove e mezzo il cordone militare era già a tutti gli sbocchi, e salendo verso Montecitorio, si arrotondava attorno all'obelisco sino agli Uffici del Vicario. A ogni sbocco era un continuo parlamentare fra gli ufficiali e coloro che volevano passare senza biglietto: ognuno di loro cercava un deputato: eccolo, lo vedeva sotto l'atrio del Parlamento, gli faceva dei cenni, ma che! Quello non si voltava! Dietro il cordone, da tutte le parti, la folla aspettatrice si assiepava, profonda, iridescente nella chiarezza mattinale; qua e là un abito rosso femminile, un abito bianco facevano macchia. Di qua dal cordone era un grande spazio libero, innanzi al portone, tutto cosparso di sabbia: ogni tanto qualche signore dal soprabito aperto, qualche signora in elegante abito di mattina, lo attraversavano, a piedi, lentamente per farsi meglio vedere, discorrendo fra loro, sentendo il piacere di sapersi invidiati dalla folla senza biglietto. Per un momento, vicino ai quattro scalini del portone, vi fu un gruppo di tre signore: una, vestita di nero, brillava tutta, al sole, di perline nere, una corazza lucidissima le imprigionava il busto: l'altra vestita di un bigio delicato, aveva un velo bianco sul viso: la terza era vestita di quell'azzurro ferrigno, allora in moda, elettrico, tutte tre si erano incontrate sulla soglia, si salutavano, si prodigavano le cortesie, ridevano, s'inchinavano, inarcate sui loro stivaletti dorati, sentendosi guardate dalla gente, ammirate, invidiate, prolungando quel minuto di piacere; poi, l'una dopo l'altra, scomparvero dentro Montecitorio. Come l'ora si approssimava, la folla si pigiava da tutte le parti, e aveva come un moto di marea, un flusso e riflusso che andava a battere contro il muro del cordone militare. Tutte le finestre dell'Albergo Milano erano gremite di teste; alle soffitte comparivano le teste arricciate dei camerieri e le cuffie bianche delle cameriere; i grandi finestroni della Pensione dell'Unione, le piccole finestre basse del Fanfulla, le finestre del palazzo Wedekind, avevano tre, quattro file di persone, le une buttate sulle altre: e in tutte le vie adiacenti, la piazzetta degli Orfanelli, la viottola della Guglia, gli Uffici del Vicario, i due capi della Via della Missione, era ancora un brulichìo di persone ai balconi, alle terrazze, alle finestre. Sulle sedie, sui tavolini del liquorista Aragno, delle donne erano salite.
Intanto, come l'ora della solenne apertura si approssimava, una fila di persone, d'invitati, attraversa lo spazio libero, nel sole, facendo scricchiolare il sabbione: ogni tanto, a un occhiello, luccicava una filza di decorazioni. Le carrozze salivano al trotto dal Corso, senza nessun rumore di ruote, giravano attorno all'obelisco, con una curva molle, e si fermavano innanzi al portone: erano le carrozze dei ministri, dei senatori, del corpo diplomatico, qualche vecchione ne scendeva, sorretto da un servitore e da un segretario, qualche uniforme bianca o rossa compariva, per un istante, poi spariva nel portone.
Sulla piccola piattaforma, due giornalisti, in marsina e col cappellino floscio, prendevano delle note, i nomi di coloro che passavano: l'uno piccolo, con la barbetta appuntita, bionda e brizzolata di bianco, le lenti d'oro, l'aria imperturbabile: l'altro, anche piccolo, tarchiato, pallidissimo, con un mustacchietto da collegiale e il sorriso di chi disegna qualche cosa di ridicolo, i direttori dei due maggiori giornali romani, che compivano personalmente il lavoro di quella importante giornata, e se la ridevano fra loro, amichevolmente, di quelle teste strane che si vedevan passare.
Il sole saliva sull'angolo della Pensione dell'Unione, cominciando a conquistare la piazza di Montecitorio e a quella conquista lenta, corrispondeva un moto della gente, come una espansione di contentezza, e ogni tanto la cappa tesa e rotonda di un ombrellino si levava. La processione degli invitati continuava, attraverso il grande circuito libero: ora essi si affrettavano con un principio d'impazienza, spingendosi un poco, sapendo di arrivar troppo tardi, per aver un buon posto. La folla delle strade, dei vicoli, dei balconi, delle finestre, sembrava talvolta come colpita da un'improvvisa immobilità, quasi un incantesimo l'avesse pietrificata, come se una immensa invisibile macchina fotografica stesse fotografandola; e si potevano discernere le facce immote, gli occhi sbarrati, le file ammassate, i bimbi tenuti in collo dalle mamme, una carrozza da nolo, ferma, fra la gente, su cui erano salite venti persone, in piedi. Poi questo incantesimo si infrangeva, la folla aveva quell'agitazione di colori che si muovono, stando sempre allo stesso posto: un movimento circolare, come lo snodamento degli anelli di un lombrico. Un ragazzetto era salito sul piedistallo, alto, dell'obelisco, e di là, attaccato al grosso tronco di pietra, si divertiva a far dei giuochi di equilibrio.
Infine il sole arrivò alla linea dei soldati, pigliandoli di sbieco: prima ne illuminò le ghette bianche, poi il cappotto turchiniccio, poi il kepì di pelle nera e finalmente battè, linea smagliante, sulle canne dei fucili. E di lontano, un rombo lieve, breve, arrivò: l'eco di una cannonata. E dall'uno all'altro di tutti gli astanti, dai balconi alle finestre, dalle strade ai vicoli, fu un fluttuamento, un sospiro enorme di soddisfazione:
— Il corteo, il corteo, il corteo, — diceva, sottovoce, con un clamore crescente, la folla.
Nell'aula fu anche udito il rombo del cannone: per un istante vi regnò un silenzio perfetto. Poi un mormorio crebbe, si elevò, i ventagli ricominciarono ad agitarsi, il chiacchierio sottile e penetrante femminile, il passo di coloro che giravano pel corridoio, cercando invano un posto, il fruscio degli abiti serici, si confusero, si fusero. L'aula era trasformata. Circolarmente, mediante una impalcatura, l'altezza dei settori era stata elevata sin quasi a livello delle tribune, formando così una grande tribuna provvisoria, dove quattro file profonde di pubblico, sedevano proprio dietro le spalle dei deputati dell'ultimo banco; sulle due scale laterali, quelle che gli uscieri conoscono per doverle salire e scendere cento volte al giorno, nelle ore della seduta, erano due falde fittissime di pubblico, due strisce larghe e nutrite che andavano, dall'alto delle tribune, fino giù, nell'aula, le signore sedute sugli scalini, gli uomini che avevano ceduto galantemente il loro posto, addossati al muro.
Attorno attorno, tutte le tribune erano zeppe, sino alle ultime file; quella della stampa, la migliore per udire i discorsi, anch'essa era stata ceduta al pubblico, i giornalisti erano dispersi, giù ai posti migliori; quella destinata alle signore era pienissima, ma sembrava una ironia, tutti ridevano che ci fosse una piccola tribuna speciale per le signore, quando esse avevano invaso tutto, erano dappertutto, alle spalle dei deputati, fin quasi nell'emiciclo, arse dalla indomabile curiosità muliebre; la tribuna dei militari era tutta un brillare di spalline e di galloni; in quella della presidenza era un gran tender di colli, un arretrarsi di gente desolata, delusa nelle sue speranze; le due tribune erano poste sopra il baldacchino reale, vedevano l'aula, non vedevano il Re, nascosto dalla cupola. E le due tribune grandissime degli angoli, quella del corpo diplomatico e quella dei senatori, rimanevano vuote, nella loro ombra profonda che dava il velluto azzurro cupo, sul fondo a legno delle pareti.
Nell'emiciclo era scomparso il banco delle commissioni, l'arco di cerchio parallello ai settori; era scomparso il lungo banco dei ministri, quello che gli oppositori a oltranza chiamano il banco degli imputati: il piccolo scrittoio di mezzo, dove i tre stenografi scrivono, dandosi il cambio ogni cinque minuti, non vi era più. Tutto il palco della presidenza era scomparso. Al suo posto, una piattaforma larga a cui si ascendeva per quattro scalini, coperta da un tappeto rosso, si elevava: e su questa un enorme baldacchino di velluto rosso, frangiato d'oro, diviso in tre scompartimenti. Tutto questo rosso prendeva una grande cupezza dalla cupola che si avanzava molto e in quella penombra sacra di cappella, l'oro della poltrona reale luccicava come un reliquiario. A un livello più basso, fuori del baldacchino, a destra e a sinistra, vi erano due altre poltrone per i membri della famiglia reale.
I deputati stavano aggruppati nell'emiciclo, ritti su per le scalettine dei settori, riuniti presso le due scalee, a discorrere con le signore: alcuni erano saliti all'ultima fila e voltavano le spalle all'aula, discorrendo allegramente con le donne di una grande tribuna di legno, salutando un conoscente, sorridendo a un amico, ammiccando familiarmente a un cliente, a un elettore cui avevano procurato un biglietto. I dialoghi s'incrociavano, leggieri, frivoli, fra quelle donnine piene di frasi puerili, che si meravigliavano di tutto, che rideano di tutto, e quei deputati che cercavano СКАЧАТЬ