Название: La conquista di Roma
Автор: Matilde Serao
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070885
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Il deputato socialista levava il capo, guardandolo fissamente coi suoi occhi maliziosi di apostolo troppo furbo: forse cercava di indovinare la stoffa di un discepolo, in quel deputato novellino e giovane; ma lo sguardo freddo, la fronte bassa dove i capelli erano piantati duramente, come una spazzola, tutta la fisonomia energica di Francesco Sangiorgio, indicavano un carattere già formato, incapace di subire influenze, su cui non avrebbe avuto presa il misticismo sociale. Sicchè Lamarca, il deputato socialista, riabbassava il capo a scrivere.
L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni, un catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse una opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato, come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.
In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca, che egli aveva tratta dal disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l'onorevole deputato bibliotecario, al passo cauto dell'onorevole Sangiorgio: o, accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d'occhi nerissimi e vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava facendo.
Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell'ultima stanza si metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno a uno, sbalordendosi di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume del Buckle, Storia della civilizzazione in Inghilterra, il secondo e leggeva.
Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gli importava.
Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente era; un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto. Gli pareva che, come agli amanti, gli si dovesse leggere, sulla faccia, la passione unica.
Quel giorno non voleva metterci piede, a Montecitorio, non voleva per nulla occuparsi del mondo parlamentare: aveva bisogno di veder Roma, di trovar casa. Egli s'indugiava alla finestra, volendo mettersi in giro, dopo colazione. Si era svegliato di buon'ora, desto da un frastuono di voci e di risate, nella camera accanto. Una voce sonante, virile, tutta scoppii, che pronunziava con un fortissimo accento napoletano, che parlava un dialetto napoletano schiettissimo, frammezzato da grosse risa, dalla mattina strepitava, esclamando, con due persone in visita che erano poi sostituite da altre due, una sfilata di amici, di sollecitatori che chiedevano, si raccomandavano, ripetevano infinitamente la loro domanda, in dialetto napoletano, con quella ostinazione verbosa partenopea, a cui l'on. Bulgaro, deputato per Chiaia, secondo quartiere di Napoli, rispondeva con forti dinieghi. Si udiva tutto attraverso la porta divisoria: l'onor. Sangiorgio, involontariamente, ascoltava — Non poteva, no, proprio non poteva, l'on. Bulgaro: che era forse il Padre Eterno da far grazia a tutti? Lo lasciassero in pace, una buona volta! — E passeggiava per la stanza, col suo pesante passo di biondone grasso che la vita borghese ha intorpidito, togliendogli l'elasticità del bell'ufficialone vigoroso che aveva sedotto tante belle creature, nel tempo buono. Ma quelli che volevano qualche cosa, insistevano, supplicavano, esponevano i loro fatti di famiglia, narravano i loro guai, ricominciando sempre, tanto che l'onorevole Bulgaro, con la facile bonarietà napoletana, cedeva, stanco, e diceva:
«Va bene, va bene: mo' vediamo, se si puol fare qualche cosa».
Quelli se ne andavano, soddisfatti, come se già avessero quello che desideravano, e l'on. Bulgaro, rimasto solo, un minuto, sbuffava e mormorava:
— Gesù, Gesù, che schiattamento! —
L'onorevole Sangiorgio si vergognò di aver tanto ascoltato, e scese a colazione, tutto pensieroso. Si armava di forza per resistere alla seduzione di Montecitorio: pensava che forse erano giunti molti deputati, mancando solo venti giorni all'apertura della decimaquarta legislatura; e già cedeva alla curiosità, un pretesto della sua debolezza. Ma, per caso, una carrozza che passava, lentamente, sul selciato bagnato, gli sbarrò la vista del portone: egli salì in quella carrozza con un atto decisivo.
«Dove comanda?» chiese il cocchiere a quel passeggiero distratto, che non gli dava l'indirizzo.
«A... san Pietro... sì, portami a San Pietro,» rispose Francesco Sangiorgio.
Il tragitto fu lungo: le tre vie consecutive, Fontanella di Borghese, Monte Brianzo, Tordinona, erano ingombre di veicoli e di pedoni, strettissime, contorte, con quelle nere botteghe di ferravecchi, di cartoleria, tutte sporche e polverose, con quei portoncini angusti, con quegli angiporti paurosi. A Castel Sant'Angelo si respirava; ma sul torbido e quasi immobile fiume giallastro, era una fittezza di casupole brune, di casamenti bigi, dalle mille piccole finestre, dalle chiazze di verde umido, sulle facciate, come se una schifosa lebbra li deturpasse, dalle fondamenta nerastre di ruggine, che l'acqua bassa lasciava scoperte: quel gomito di fiume, verso Trastevere, era ignobile. In Via Borgo la quiete profonda clericale cominciava, coi palazzi bigiognoli silenziosi, con le botteghe di oggetti sacri, statuette, immagini, oleografie, rosari, crocifissi, su cui era pomposamente messa la leggenda: Oggetti di arte.
Nella vastità della piazza, solitaria, deserta, che ascende verso la chiesa, le due fontane zampillanti, sembravano due pennacchi bianchi, e l'obelisco di mezzo un bastoncello; e intorno intorno era tutta una bagnatura lieve, un umidiccio di acque quasi trapelanti a fior di suolo, un silenzio di luogo disabitato. La carrozza girò intorno all'obelisco e si fermò innanzi alla grande scalea. L'onorevole Sangiorgio guardava la facciata di San Pietro, sembrandogli molto piccola e molto schiacciata.
«Non vole andare in chiesa?» domandò il cocchiere.
«.... Sì,» disse il deputato, scotendosi dalla sua distrazione.
Francesco Sangiorgio non capiva nulla ai monumenti dei pontefici: li guardava senza intenderne la bellezza o la bruttezza. Aveva idee vaghe e meschine in fatto di arte. Quello del Canova, coi leoni dormienti, gli parve mediocre: quello di papa della Rovere, a terra, tutto di bronzo, gli parve superbo e bello: quello del Bernini, la Morte di oro, il tappeto di marmo rosso venato, il papa di marmo bianco, non gli urtò i nervi, gli sembrò semplicemente bizzarro. Non sapeva se i quadri dipinti sulle pale degli altari fossero di buoni autori o no, se fossero copie od originali. Andava attorno, trattenendosi, quasi per obbligo, distraendosi, pensando ad altro, non interessandosi a quella massa enorme di pietra, glaciale, abbandonata, dove altre tre o quattro ombre vagolavano. Infine, uscendo, il monumento СКАЧАТЬ