Название: La conquista di Roma
Автор: Matilde Serao
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070885
isbn:
Invece la gente di servizio si affaccendava intorno a un gruppo di signori in tuba, dall'aria pallidamente burocratica, che avevano l'abito nero e la cravatta bianca sotto i soprabiti abbottonati, dai baveri rialzati, con la faccia smorta di chi ha poco dormito e il contegno di persone distinte, che compiono un alto dovere di convenienza. Quando da un vagone del treno di Firenze era discesa una signora, alta, svelta, elegante, tutti si erano scappellati: poi un signore, magro, alto e vecchio, discese: il gruppo si strinse, il signore scarno salutava, la signora odorava, sorridendo, un mazzo di fiori che le avevano offerto. Dai soprabiti aperti, adesso, era una gala di sparati bianchi: un sorriso fioriva sulle facce d'un tratto colorite: a certe catenelle d'orologio, le medagline erano quattro, cinque.
— Sua Eccellenza, — fu mormorato intorno.
Poi il gruppo si avviò, la delicata signora dando il braccio al vecchio magro, i deputati e gli alti funzionari, dietro. L'onorevole Sangiorgio tenne anch'esso dietro, macchinalmente, essendo rimasto solo.
Sulla Piazza Margherita egli vide il governo mettersi in carrozza, in mezzo alla fila degli amici che si era schierata, salutando: la signora chinava il capo dallo sportello, sorridendo: vide tutti andarsene, in carrozza, dopo. Egli era solo, sulla vasta piazza. Per terra un umidore come se avesse piovuto: tutto le finestre dell'Albergo Continentale chiuse. A sinistra, il corso Margherita ancora in costruzione: mucchi di tavoloni di travi e calcinacci. Gli omnibus degli alberghi voltavano per andarsene. Tre o quattro carrozze restavano, per indolenza dei cocchieri, che fumavano, aspettando ancora. A dritta, un carosello deserto, sbarrato e sopra un grande muro grezzo, un'accecante réclame del Popolo Romano. Su tutto questo un'aria bassa e molle, una nebbiuzza penetrante, un lieve sentore cattivo, l'aspetto nauseato e nauseante di una città che appena si sveglia, nella gravezza flaccida delle mattinate d'autunno, con quel fiato di febbre che pare aliti dalle case.
L'onorevole Francesco Sangiorgio era molto pallido, e aveva freddo — nel cuore.
II.
Quel giorno bisognava resistere e non andare a Montecitorio. Non pioveva più, come per stanchezza di quella settimana di pioggia: un fiato molle di acqua fluttuava ancora nell'aria, le strade erano fangose, il cielo tutto bianco di nuvole: una gente smorta, chiusa nei soprabiti, coi calzoni arrovesciati sul collo del piede e col viso incerto di chi non si fida, girava per le vie. Da una finestra dell'Albergo Milano, l'onorevole Sangiorgio guardava il palazzo del Parlamento, dipinto in color legno chiaro, su cui la pioggia autunnale aveva impresso certe larghe macchie più oscure, e cercava di raffermarsi nel suo proponimento di non entrarvi in quel giorno.
Per sei giorni di pioggia, egli era stato lì dentro, la mattina, nel pomeriggio, di sera. Come schiudeva la finestra, al mattino, scorgeva, attraverso il velo fitto della pioggia, il grande palazzone panciuto, che pareva volesse sbuzzar fuori per l'umidità. E si vestiva macchinalmente, tenendovi gli occhi addosso, facendo conto di andarsene per Roma, a vedere la città, a cercare un quartierino mobiliato, non potendo durare alla vita di albergo; ma sulla porta dell'albergo, aprendo il paracqua, una subita indolenza lo vinceva; la strada che inclinava a Piazza Colonna, gli pareva sdrucciolevole e pericolosa: egli dava una scrollata di spalle, ed entrava direttamente, sotto la pioggia che incalzava, nel palazzone di Montecitorio. Ne riusciva solo per far colazione, all'albergo, nel salone a terreno che fa angolo, dietro una delle porte-finestre, dai grandi cristalli di un sol pezzo; e mangiando lo stufatino di vitella alla romana, egli si voltava, ogni tanto, a vedere chi entrasse in Parlamento.
Mangiava rapidamente, con la distrazione di un cervello che non è sensibile al piacere dello stomaco. Sempre qualcuno che entrava lo interessava. Ora gli sembrava che fosse il Sella, con la sua forte persona, un po' quadrata, come se fosse tagliata con l'ascia, e la barba ispida, di un nero opaco, che si brizzolava presto: e Sangiorgio si levava su, come per corrergli dietro, a raggiungerlo. Ora gli sembrava che fosse il Crispi dal grosso mustacchio bianco, dal viso colorito, simile più a un vecchio generale brontolone, che a un focoso avvocato. L'onorevole Sangiorgio finiva presto di mangiare, ròso dalla impazienza di vedere davvicino questi uomini politici, questi capi-parte, e scappava di nuovo a Montecitorio. Ma lì una crescente delusione lo attendeva.
Egli girava dapertutto, cercando il Sella o il Crispi: ma l'aula era vuota e fredda, sotto il lucernario, co' suoi banchi ancora coperti delle fodere di tela estive, coi suoi tappeti di un color polvere, orlati di azzurro, avendo l'aria di un pozzo profondo e umido, con una luce altissima che vi pioveva, quasi filtrando attraverso un velo d'acqua. Distrattamente egli saliva i cinque scalini che portano al seggio presidenziale, e si fermava un momento, dietro il seggiolone, a guardare i banchi, che stretti, giù, ascendevano verso le tribune, allargandosi; gli veniva una voglia infantile di mettersi a baloccarsi coi bottoni bianchi della soneria elettrica: per non cedervi, ridiscendeva subito dall'altra parte e usciva dall'aula, portando seco un po' della malinconia di quel grande cono rovesciato giallastro, così tetro nella solitudine. Non trovava il Sella o il Crispi in nessun posto, nè nel buio corridoio lungo e stretto, dove i deputati hanno i loro cassetti per i progetti di legge e per le relazioni. Egli non trovava il suo uomo politico nè alla buvette, nè al grande salone dei passi perduti, nè alle stanze degli Uffici che dànno sulla piazza: un silenzio, una solitudine, dappertutto, con qualche usciere che gironzava, in uniforme, ma senza medaglia e con l'aria stanca delle persone disoccupate. Or qua, or là, l'onorevole Sangiorgio incontrava il questore della Camera che, era venuto a dare il cambio all'altro questore, un patrizio che si godeva l'ottobre nel fasto della sua villa magnatizia sul Lago Maggiore: e quest'altro, un barone abruzzese, dalla serena aria signorile, dalla fluente barba bionda, dalla compostezza mite, senza severità, del gentiluomo fedele alla consegna, se ne andava invigilando, senza far mostra di nulla. Ogni volta che il barone questore incontrava l'onorevole Sangiorgio, gli faceva un piccolo saluto col capo: e mormorava:
«Onorevole».
E non diceva altro, passando. Da questa cortesia continua e da questa continua riserva, l'onorevole Sangiorgio era come imbarazzato e intimidito: avrebbe preferito o non esser salutato, come un estraneo, o discorrere come un collega. Quella correttezza, amabile ma fredda, lo sconcertava, cosicchè, in capo a una settimana, di questi saluti compiti, senza lo scambio di una parola, l'onorevole Sangiorgio aveva finito per arrossire, lievemente quando incontrava il questore, come se costui lo sorprendesse in fallo. Poi, preso da una sfiducia di trovare chi cercava, egli si rifugiava nella sala di lettura, intorno alla grande tavola ovale, dove erano sparsi i giornali quotidiani. Lì, trovava sempre un paio di deputati: un socialista, di Romagna, dalla barbetta biondacastana e dall'occhio mobilissimo dietro gli occhiali, che scriveva continuamente sopra un tavolinetto, lettere sopra lettere, proclami focosi, forse; un deputato vecchio, col pizzo bianco e la faccia rossa, che dormiva sempre, quietamente, in una poltrona, coi piedi sopra una sedia, le mani in grembo e un giornale spiegato sul petto.
Francesco Sangiorgio, vinto da quella quiete, da quell'aria calda, dalla mollezza della grande poltrona di velluto azzurro cupo, appoggiava la testa a una mano, tenendo sempre sollevato il numero del Diritto o dell'Opinione che stava leggendo. Un sopore gli scendeva su tutti i nervi, come rilassati in quell'ambiente caldo e silenzioso; ma nel sopore, dietro la mano che gli copriva gli occhi, egli ascoltava. Se il deputato socialista voltava il foglio, se il vecchio faceva gemere una molla del suo seggiolone, Sangiorgio trasaliva: il timore di essere sorpreso dormendo, lo scuoteva, come quell'antico deputato che non aveva vergogna di distendere la sua senilità sfiaccolata e inattiva nella sala, dormendo della grossa, СКАЧАТЬ