Название: La conquista di Roma
Автор: Matilde Serao
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070885
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Nella bottega della guantaia, in via di Pietra, vi era ressa: la bella padrona bionda e alta, una milanese allegra, le due commesse, le due giovanettine magre, dagli occhi stanchi, non facevano che rivoltarsi indietro, ogni minuto, con le braccia tese, a prendere un cassetto di guanti dagli scaffali: esse curvavano il capo a scegliere con le dita lunghe e agili, fra le paia, quel paio che cercavano. Tutti quelli che entravano, chiusi nel paletot, sotto cui s'indovinava la marsina, col bavero alzato e il cappello a staio, lucidissimo, chiedevano dei guanti chiari o bianchi; un signore elegante, dalla tuba di raso, dal nastro rosso e bianco sotto il goletto, un commendatore, infine, precisò quello che voleva, li chiese color grigio tortorella. Una signora provinciale, vestita di raso granato, con un cappellino bianco che l'affogava, sceglieva lungamente un paio di guanti, discutendo, facendo impazientire i tre o quattro che aspettavano, in un cantuccio: cercava il guanto stretto, non le piaceva che facesse pieghe; poi blaterò contro la debolezza dei bottoni, attaccati con un punto solo, che saltavano via dopo un minuto. Quando le dissero il prezzo, sei lire, si scandalizzò, assunse un contegno serio, disse che era cattiva la pelle per quel prezzo così caro e uscì, senza guanti, con le labbra strette, portando in mano il suo biglietto d'invito per una tribuna.
Un onorevole, forte, giovane, bruno, dai grossi mustacchi neri, un meridionale, raccontava a un suo cliente che si trascinava dietro, come all'ultimo momento si era trovato senza guanti, che queste padrone di casa mandano tutto alla malora: e il cliente povero ascoltava, col vago sorriso paziente dei confidenti, senza guanti, lui, non avendo forse il denaro da comperarli.
Intanto era entrata una signora, scendendo da una carrozza: era alta, con un bel viso tutto dipinto di carminio, di antimonio e di bianco, le labbra sanguinanti, le sopracciglia azzurre a furia di esser nere, i capelli di un biondo giallissimo. Tutta vestita di bianco, di raso, con un cappello coperto di piume bianche, con un ombrellino di merletto bianco, ella cercava un paio di guanti bianchi, a diciotto bottoni, e i suoi braccialettini tintinnavano, salendo e scendendo sul braccio nudo: ella esalava un acuto profumo di white-rose.
Un deputatino, piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di barba nera e un par d'occhietti vividi, piccini, rotondi, la guardava di sotto in su, e si lagnava, con un collega, un bel signore alto, dal mustacchio biondastro brizzolato, dall'aria grande di sciocco decoroso, che la Corte glielo faceva per dispetto: deputato democratico, dell'estrema sinistra, veniva sempre fuori nel sorteggio dei deputati che dovevano ricevere il Re e la Regina alla porta del Parlamento. Capite, lui, deputato democratico, dover fare il saluto, la riverenza, offrire il braccio ad una dama di Corte che non si conosce, che non vi parla, a cui non si sa che cosa dire.
«Le donne eleganti mi piacciono», mormorò il deputato, col suo contegno di stupido soddisfatto.
«Sarà; ma quando si pensa che quel vestito è fatto coi denari dei contribuenti...» ribattè l'onorevole grassotto repubblicano.
E uscirono, guardando salire in carrozza la bella femmina dipinta: fra le sfioccature di trina della sua cravatta, ella portava un bigliettino roseo: andava a un'altra tribuna, ella, a una tribuna distinta.
«La vendetta del proletariato», disse il deputato democratico, tutto compiaciuto.
Ora, nella bottega di guanti, la gente si accalcava. Erano facce d'impiegati, dalla barba rasa di fresco, dalle cravatte bianche stirate in casa, dai soprabiti pepe e sale, fumo di cannone, carbonella, sotto cui i calzoni neri avevano un luccicore di panno conservato: erano facce scialbe di alti funzionari, a cui il nastro verde dei SS. Maurizio e Lazzaro dava un colorito anche più cadaverico: erano ogni sorta di tube antiquate, a cui un colpo di ferro aveva dato un aspetto giovanile.
La guantaia bionda e ridente non si stancava, non perdeva mai la testa, si chinava sempre amabilmente, rispondeva con una cortesia di venditrice signorile settentrionale. Aveva consumata la sua provvisione di cravatte bianche, e quando arrivò l'onorevole di Santamarta, un siciliano biondo, dall'aria mefistofelica, a chiederne una, ella si desolò: il marchese di Santamarta era un cliente di tutto l'anno. Proprio in quel momento aveva finite le cravatte bianche: ma il Salvi, qui, in Piazza di Sciarra, ne doveva avere. Il marchesino biondo ascoltava, un po' indolente, con gli occhi azzurri femminili un po' smorti fra le palpebre, e il sorrisetto scettico.
«E la signora marchesa era in Roma, si recava naturalmente al Parlamento?».
«Si..., credo», rispondeva l'onorevole marchese, «credo che vi andrà con sua sorella. Sono uscito presto di casa, per questa cravatta. Che fastidio, sempre, queste rappresentazioni...».
E stracco, come se avesse compiuta una gran fatica, e un'altra insopportabile gliene restasse da fare, se ne andò.
«Da questo Salvi, dite?» domandò dalla porta, con una voce seccata.
«Salvi, in Piazza Sciarra».
Per un momento, la bottega restò vuota. Le giovanette si riposavano, in piedi, con un pallore sul volto, fra le scatole aperte dei guanti e i fasci ammucchiati sul marmo; la stessa padrona era presa da un minuto di lassezza, immobile, appoggiata con le mani al banco. Le pareva di essere in una di quelle ardenti sere di carnevale, delle ultime, in cui Roma ha tre balli aristocratici, quattro veglioni pubblici e otto o dieci ricevimenti; e nella bottega è un affollarsi di giovanotti, di modiste, di servitori, di cameriere, di mariti disperati, di amanti frettolosi. Ma una famiglia di salernitani, padre, madre e figliuola, il padre impiegato all'Interno, entrarono, e chiesero un paio di guanti per la ragazza. Essi spiegarono subito che andavano alla Camera, che i biglietti li avevano avuti, uno dal loro deputato barone Nicotera, il barone, diceva semplicemente la madre; un altro lo avevano avuto da don Filippo Leale, l'onorevole Leale, quello con la barba nera, che era stato segretario generale, e il terzo biglietto lo aveva procurato un usciere della Camera, del loro paese, un brav'uomo, con cinque medaglie: oh! i biglietti non si avevano facilmente, ve n'era una caccia! una signora, zia di un deputato, che essi conoscevano, non aveva potuto averlo. Erano un po' preoccupati, visto il colore diverso dei tre biglietti, tre tribune diverse: ma via, non si sarebbero perduti nel Parlamento.
«Credo che bisognerà che vadano per tre vie diverse,» osservò placidamente la guantaia, a quel profluvio di parole, calzando a stento la mano rossa e paffuta della ragazza. Il papà guardò sua moglie, con una cera turbata.
Adesso, la bottega si empiva di nuovo, di gente frettolosa, nervosa, che non poteva aspettare, che batteva i piedi dall'impazienza, che lacerava i guanti per metterli presto. Davanti al banco era una doppia fila di avventori, che si accalcavano gli uni sugli altri: sul banco una grande confusione di scatole aperte, uno sfasciamento di mucchi di guanti: un odore forte di pelle, quell'acuto odore tutto femminile che ubbriaca.
Il gaio sole autunnale, in quella mattinata tutta gioconda, saliva sulle case di via della Colonna, sulle case di via degli Orfanelli, e illuminava di traverso Piazza Colonna: la colonna Antonina pareva nera e vecchia in quello spolverio di luce bionda che la circondava, e si delineava, tutta raggricchiata, come gobba, sulla facciata rossa del palazzo di Piombino.
Nell'aria limpida era come uno scintillio di atomi dorati. Non spirava un'aura di vento: una dolcezza immobile avvolgeva le strade e le case, un ambiente letificato di sole. Dal liquorista Ronzi e Singer, al Club delle Cacce, al grande balcone di donna Teresa Boncompagni, principessa di Venosa e dama della Regina, al Circolo Nazionale, le bandiere tricolori pendevano spiegate: all'angolo del palazzo Chigi, sul balcone dell'ambasciata austriaca, le due bandiere si univano, fraternamente. Nella nitidezza della luce, in cui tutto pareva vibrasse, a contorni precisi e taglienti, i tre colori, vividi, gittavano una nota acuta, allegrissima: e il tono giallo del sabbione sparso per il Corso e per la salita di Piazza Colonna sino al Palazzo Montecitorio, si rinforzava. Sulla terrazza del Circolo Nazionale, era una fittezza di ombrellini rossi, bianchi, azzurri, come imbionditi dal sole. Dai due lati del Corso, СКАЧАТЬ