Название: Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni
Автор: Massimo d' Azeglio
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070090
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E con amorevoli parole, usando così pure un poco di forza, sollevò di terra la donna, e s’avviò con essa a lento passo non restando di reggerla e confortarla, e portandole alla fine anche il bambino, che faceva un bel vedere in collo a Fanfulla, finchè l’ebbe condotta al palazzo de’ Signori nelle camere terrene, occupate dalla guardia del portone, ove almeno non piovea, e v’era anche acceso un buon fuoco.
Colà appoco appoco, rasciutta e ristorata alquanto, cominciò la donna a parlare. Sul primo stava come in sospetto, vedendosi attorno molti soldati che la consideravano senza cerimonie, nè tralasciando pur anche ognuno di dir ciò che gli veniva bene sul fatto di essa: ma Fanfulla, accortosi che quell’investigazione e que’ discorsi l’offendevano, li fece ritrarre in una stanza vicina, parte con buone parole, parte mostrando di adirarsi, e di voler usare quel tal argomento, accennato di sopra, che i maestri di logica hanno scordato di mentovare.
Non sapeva perchè, ma sentiva premura per quella sconosciuta, e non è cosa che non avesse fatto per farle piacere: la donna anch’essa, rassicurata un poco e rincorata dal buon cuore che traspariva dai modi un po’ ruvidi, è vero, ma pure amorevoli del vecchio soldato, si lasciò persuadere ad aprirsi a lui, e raccontargli le sue vicende. Ma considerando che questo racconto riuscirebbe per avventura interrotto e mal connesso, quale si dovrebbe aspettare da una persona posta in tanta agitazione d’animo, e confusione di pensieri, crediamo bene di tralasciarlo: essendo però necessario che il lettore sappia chi era costei, e conosca i suoi casi, ci giova per questo riprender le cose indietro un po’ alla lontana, e riferir molti particolari appartenenti alla famiglia di Niccolò, ai quali non abbiam fin ora saputo trovar luogo nel nostro racconto.
CAPITOLO VIII.
In faccia alla porticciuola di fianco di S. Maria Maggiore si vede ora una casa dell’architettura insipida e senza carattere del secolo XVIII, che dopo essere stata la locanda dell’Aquila nera, vien detta in oggi la nuova York. In quest’area medesima, occupata prima dal Seminario, ed in parte, più anticamente, dalla casa de’ Cerretani, era, all’epoca di cui scriviamo, la casa di Niccolò, fabbricata dal tre al quattrocento, e simile ad alcune di quel tempo che ancora rimangono in Firenze. Dio voglia conservarla un pezzo, o liberarla da un padron di casa di que’ tali che, per aumentar le pigioni, d’una camera ne fanno quattro, apron finestre, danno il bianco alle facciate.... ma lasciamo questo discorso, che è un brutto combattere e parlar di gusto, di memorie, d’architettura, con chi risponde quattrini.
La casa ove abitava la famiglia de’ Lapi (divisa da’ Carnesecchi dalla via de’ Conti) era quadra, soda, massiccia, a tre piani, con un bugnato sino al primo di pietre scarpellate ed annerite dal tempo; le mura al disopra tutte piene di rabeschi a graffito, ed in cima affatto una loggia retta da colonnette sottili. Il tetto sporgeva innanzi di molte braccia, e le travi dell’incavallatura che lo reggevano, prolungandosi fuori del muro, mostravano a guisa di gran mensoloni ornati alla grossa di qualche intaglio. Le finestre del pian terreno, forse un po’ troppo a portata di chi era in istrada, eran munite da grosse ferriate, sott’esse una panca di sasso quant’era larga la facciata, ed in questa, all’altezza di dieci braccia, eran commesse tra le bugne spranghe di ferro lunghe tre palmi, ripiegate all’insù, con un bocchino in cima ove si piantavan, in occasione di feste, torchj o stendardi, e dalle quali pendeva un grandissimo anello: sull’angolo poi del palazzo era, all’altezza medesima, uno di que’ lampioni pure di ferro, quali ancora si vedono sugli angoli del palazzo Strozzi, opera del Caparra. Al portone posto nel mezzo, si picchiava con due campanelle di bronzo grandissime che pendevan dalla bocca di due maschere di leoni: ed a veder come le imposte eran per tutto afforzate di chiodi e di lastre, nasceva l’idea, che per i ladri una visita in quella casa non sarebbe stato tempo perduto.
Entrando si trovava un androne la cui volta era a scompartimenti a buon fresco, e che metteva in un cortile quadrato, intorno al quale, sotto un atrio arioso e ben disposto, si vedean molte storie pure a fresco, dell’epoca e della scuola di Masaccio. A metà dell’androne sopraddetto, due porte davano adito al terreno. Quella a mano manca conduceva a quattro sale ove Niccolò avea il fondaco, lo scrittojo, e v’attendeva co’ suoi giovani alle faccende mercantili: l’altra a destra serviva d’ingresso al suo quartiere, che avea prescelto dacchè la vecchiaja, benchè verde, gli avea però reso grave il disagio di far le scale. Il primo piano era occupato dai figli: l’ultimo dalle figliuole e dalle donne, che venivano così ad esser in luogo più guardato, e divise affatto dal resto della casa.
La camera del vecchio (e dagliela con le descrizioni! dirà il lettore.... ma come si fa a dipingere un gruppo di figure se non si fa loro un po’ di campo?) la sua camera dunque era in tutto appropriata a chi l’abitava, cioè di stile grave e severo. Tesa d’un panno d’arazzo di Fiandra, che rappresentava varj fatti della Bibbia, con un soffitto di legno oscuro, a larghi cassettoni; non conteneva che questo poco mobile; un letto di noce lucido, la cui camerella quadra di sciamito pavonazzo, era portata da quattro colonnette piantate su un soppidiano che a guisa di zoccolo o basamento circondava il letto e serviva a salirvi: due cassoni di legno tutti intagliati a mezzo rilievo (la moglie di Niccolò gli aveva recati in casa quando v’era venuta sposa, e secondo l’uso d’allora, contenevano il corredo,) infine molti seggioloni a bracciuoli di cuojo pavonazzo, fermato con borchie d’ottone.
Accanto al letto era una nicchia nel muro alta quattro braccia dal pavimento, nella quale stava appiccata una tonaca da domenicano; sott’essa un’urna d’argento a modo d’un cofanetto, ed una lampada appesa con una catena al soffitto le ardeva davanti. La tonaca era l’ultima che avea portata fra Girolamo Savonarola (il cui ritratto si vedeva attaccato alla parete vicina, chiuso in una cornice d’ebano) ed era quella che gli avean tratto di dosso all’atto del suo supplizio: l’urna conteneva le ceneri del rogo sul quale era stato arso, e queste cose che Niccolò teneva quali reliquie d’un martire, e come memorie d’un maestro e d’un amico, erano da lui guardate con tenera ed altissima venerazione.
Pochi giorni dopo l’esequie di Baccio, egli era seduto dopo cena, ove solea porsi sull’imbrunire, sotto la cappa d’un gran cammino, nel quale ardeva un buon fuoco: avea intorno tutti i suoi di casa, ed alcuni degli uomini che allora più potevano in Firenze, i quali spesso si trovavan quivi insieme a veglia; non che Niccolò fosse allora d’alcun magistrato, ma soltanto per l’affetto che gli portavano, pel molto conto in che tenevano la sua pratica nelle cose di stato, e per la sua autorità nella parte de’ Piagnoni della quale potea dirsi l’anima ed il capo.
V’era Bernardo da Castiglione, padre di Dante, odiatore ferocissimo del nome Pallesco, ed uno dei più riputati della sua parte, quella de’ popolani, che volevano la più estesa democrazia, avversi perciò alla setta degli Ottimati, della quale, come dicemmo, era stato capo il gonfaloniere Niccolò Capponi.
V’eran due frati Domenicani, Fra Benedetto da Faenza, che abbiamo trovato superiore di S. Marco, grandissimo uomo dabbene, e di assai vaste cognizioni, sia nelle materie teologiche, sia nelle lettere latine e greche; ma di natura troppo mite per quei tempi d’arditi e tremendi consigli: e Fra Zaccaria da Fivizzano di S. Maria Novella, predicatore facondo ed agitatore bollente del popolo, che era da lui infiammato alla libertà coll’eloquenza incalzante e fatidica del Savonarola.
V’era Francesco Ferruccio di mercante divenuto soldato, uomo che si potea dir di ferro schietto anima e corpo; di que’ tali che si uccidono, ma non si vincono, nè si piegan giammai: di quelli che bastan talvolta essi soli a ritardar la rovina degli stati; intrepido soldato, capitano avveduto, fortunato nelle fazioni, rigido per la disciplina ed inflessibile co’ soldati, che ciò non ostante l’amavano, perchè lo conoscevano al tempo stesso СКАЧАТЬ