L'Illusione. Federico De Roberto
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Читать онлайн книгу L'Illusione - Federico De Roberto страница 20

Название: L'Illusione

Автор: Federico De Roberto

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069858

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СКАЧАТЬ Giulia glie lo ripeteva, scherzando, con allusioni continue! Ed ella lo amava, sì; malgrado i suoi propositi di freddezza, di crudeltà, lo amava: un fremito le passava pel corpo quando egli le si avvicinava; il cuore le batteva più forte quando parlava o danzava con lui, quando egli le stringeva la mano un certo modo diverso da quello di tutti gli altri, quando le diceva certe cose indifferenti con la voce piena d'un tenero turbamento... Il suo primo amore! Il suo grande amore!... Dei sorrisi di compassione le fiorivano sulle labbra pensando agli amoretti dei dodici anni, a Niccolino Francia, a Luigi Accardi, all'ufficiale di Messina. Sciocchezze, ingenuità da bambina!.. Adesso sentiva che il suo avvenire s'inpegnava, che la felicità della sua vita dipendeva da quell'amore. Ma lui, perchè non parlava? perchè non le diceva che le voleva bene?... Certe volte pensava al modo con cui glie lo avrebbe detto, alle parole divine che avrebbe trovate, al momento unico, misteriosamente propizio, che certo egli aspettava ancora di cogliere. Altre volte, delle difficoltà, degli ostacoli sorgevano nella sua fantasia: un dramma che scoppiava, dei dolori ineffabili, la morte che avrebbe potuto coglierla a un tratto!... Ella si vedeva, moribonda, con le mani affilate sulla coltre bianca: le donne singhiozzavano intorno, e a un tratto un rumore di passi, l'apparizione di una figura disfatta, spettrale: lui, fermo un istante sulla soglia della camera mortuaria. Un grido terribile gli lacerava la gola, e precipitandosi verso il letto, vi cadeva in ginocchio dinanzi, bagnando di lacrime calde la fredda mano scarnita ch'ella gli abbandonava. La funebre rappresentazione le si spiegava dinanzi con l'evidenza della realtà: sentiva le dita di lui errarle fra i capelli, vedeva i visi pallidi dei parenti, udiva le salmodìe degli agonizzanti; e delle lacrime le rigavano lentamente il viso. Ella piangeva sè stessa, i suoi sogni svaniti, la sua bellezza per sempre distrutta: si vedeva composta in una bara, bella ancora, ma pallida pallida, e fredda, come di marmo. Dei gigli sulla sua tomba... un uomo che si gettava bocconi sulla terra umida e scura... un lamento straziante... E restava così, a singhiozzare pianamente, intanto che il sole rideva e che un fragore di carrozze trascorrenti in lunghe file veniva su dalla via.

       Perchè quelle imagini tristi? Ella pensava d'esser una creatura provata dalle sventure, superiore per questo; dotata d'un cuore più sensibile, d'una fantasia più impressionabile, votata ad un destino più arcano degli altri. Ella leggeva i versi del Prati, del Leopardi, dell'Aleardi: v'erano dei passaggi che non intendeva, ma quanti altri che la facevano piangere!

      Poi si scuoteva, sorrideva delle sue angoscie senza cagione, tornava alla gaiezza consueta, passava da uno svago ad un altro, s'ingolfava in quella vita felice, senza cure, che era tutta una festa. Allora avveniva che, nell'animazione regnante tra le folle eleganti, nel tumulto giocondo destato dalla musica e dal ballo, ella si dimenticava di Enrico, ma interamente, completamente, come se egli non fosse mai esistito, tutta al proprio trionfo, inebbriata dagli omaggi dei giovanotti, dai complimenti delle amiche, dalle sussurrazioni ammirative che sorprendeva al proprio passaggio. Vi erano tanti altri che decisamente le facevano la corte, Lollò Cutelli, un marchesino ricchissimo ma un po' grullo, Antonio Bracciaferri, ufficiale di cavalleria che aveva lasciato il servizio e che lei metteva in caricatura, rifacendo i suoi «cosa?» e i suoi «sfido!», il cavaliere Sibiliano, sulla quarantina, buffo con le sue pretensioni giovanili, ma però molto corretto; tanti e tanti altri ancora, a cui ella badava volta per volta, quando li aveva a fianco, studiandosi di montar loro la testa, ma che a distanza si confondevano in una massa; in un coro, dove ella non distingueva, non sceglieva... Sì, vi era uno a cui ella pensava più che agli altri: Mario Caimi, la cui nascita non era molto distinta, ma che aveva, con una ricchezza straordinaria, una fama di rompicollo coraggioso, di viveur à outrance.

       — Caimi ti fa la corte! — le aveva detto una volta Giulia, ed ella si era accorta che era vero: dall'alto del suo stage, col magnifico attacco dei due sauri e dei due morelli che faceva voltare tutta Palermo, passava e ripassava sotto casa sua, l'inseguiva a passeggio; e a teatro le piantava il cannocchiale addosso, fino a imbarazzarla; e ai balli se lo vedeva sempre sul proprio cammino, coi gomiti stretti ai fianchi, il capo piegato in un saluto profondo. Che cosa sentiva per lui? Non lo sapeva; era sicura che lo avrebbe rifiutato come marito, però le piaceva averlo legato al proprio carro; gli concedeva qualche cosa di più che agli altri per avvincerlo di più. Enrico Sartana gonfiava, le teneva il broncio, mostrava i denti a quell'altro, e l'idea che i due uomini si potessero afferrare per contendersela le dava un senso di compiacenza, malgrado la sua coscienza protestasse, malgrado ella si dicesse, ma sorridendo: «No, no; poveretti!...» E adesso Sartana s'era messo a far la corte a Sara Máscali, le stava sempre attorno, le parlava piano, facendola ridere, ridendo lui stesso, fingendo di non accorgersi di lei!...

      Ella si sentì punta al vivo da quella preferenza accordata ad una delle sue nemiche, ad una di quelle che ora la chiamavano contadina! Si ribellava all'ingiustizia di quell'uomo: che cosa gli aveva fatto per trattarla così? Egli perchè non aveva parlato? Erano gli uomini che dovevano fare i primi passi! Presumeva forse che senza impegnarsi a nulla da suo canto, ella non dovesse aver occhi che per lui? Bisognava che ella si compromettesse dinanzi al mondo aspettando che egli si degnasse di pronunziarsi?

      Ed esagerando tutte queste cose, imaginando di dover prendere la sua rivincita, si mise a dar retta a Michele Platamone, uno di quelli che la guardavano con maggiore insistenza. Sua madre era tedesca, egli era stato educato in Germania, e nell'abito, nelle maniere, nell'aria, aveva qualche cosa che lo distingueva da tutti gli altri. Ella voltava le spalle ad Enrico quando lo incontrava, e sorrideva amabilmente all'altro, permetteva il suo corteggiamento. Ma questo qui era volubile, faceva il gallo della Checca — secondo l'espressione di Giulia Viscari — e con un'amarezza sconfortata ella si diceva: «Come sono gli uomini!...» Di preferenza, ronzavano attorno alle signore maritate, e certe storie si susurravano tra le ragazze: Amato era con la Filaruta; Pietro di Santà aveva compromessa la Carosia, Caimi aveva tante donne, ballerine, attrici, le altre...

      Ella si perdeva ad imaginare la vita di queste, le attrattive che esercitavano sugli uomini. Com'era possibile per alcune averne tanti, tutti in una volta e senz'amore? Insieme con le amiche, guardava curiosamente la Camilleri, la moglie del presidente Vasto, tutte quelle di cui più si mormorava: studiava le loro tolette, le loro mosse, non perdeva nessuna delle loro parole; le trovava più eleganti, più affascinanti delle oneste, e le fissava in viso quasi potesse leggere nei loro occhi il secreto della loro vita.

      Alcune non venivano ricevute in società; della Sanfiorito si diceva una cosa mostruosa ed inconcepibile: che fosse l'amante del cognato, tanto più vecchio e più brutto di suo marito; ma intorno ad una, Matilde Gerosa, regnava come un'aria di mistero che arrestava i più maligni. Era così bella, con degli occhi così febbricitanti, con un'espressione così fatale, con una voce così stranamente velata, quasi un'eco lontana! La più discussa di tutte era la Gelia: benchè non più giovane, cambiava d'amante ogni quindici giorni, tante signore non avrebbero voluto riceverla, se non fosse stata la posizione di suo marito. Che eleganza, però! Che grazia di linguaggio! Che brio! Dove entrava lei, entrava la gaiezza. In estate, ai bagni, uno sciame di giovanotti l'attorniava sulla rotonda della baracca; usciva a nuotare al largo, e qualcuno sempre l'accompagnava. Le ragazze, in distanza, non avevano occhi che per lei; Anna Sortino, una spregiudicata, diceva mostrando le due teste lontane:

      — Chissà che cosa fanno le mani, adesso!...

      Ella sentiva crescere il suo disprezzo per gli uomini, si rimproverava amaramente di pensare ad essi, li stimava tutti eguali: falsi e odiosi; poi voleva strapparli a quelle altre, averli tutti intorno, essere circondata più delle altre quantunque fosse ancora ragazza.

      Enrico, rivedendola, la punzecchiava, faceva delle allusioni alle preferenze che lei dimostrava pel figlio della Tedesca, diceva:

      — La signorina ama molto la Germania!...

      — Sì, per l'appunto; è una nazione seria.

      — Ma pesante, via, ne convenga!

      — Lei è padronissimo di preferire la leggerezza francese...

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