Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
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Название: Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066088026

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СКАЧАТЬ condurre lo Stato. Però, a tutti i partiti onorevoli e plausibili, purchè nascano da convinzioni, non mancano coloro che suscitano mille voglie, mille cupidigie tutto altro che plausibili; e i Capi dei diversi partiti si trovano sovente a vergognare di quelli che fanno bandiera dei loro nomi onorati a queste intemperanze ed a queste enormezze. A cosiffatti disordini accennavano le parole della Commissione nel compilare lo Indirizzo al Principe. Ora, che cosa ha fatto il Ministero vostro nell'assenza di mezzi, e nella mancanza delle persone? I Ministri hanno sentito, come altro non potessero fare che dare allo Stato una cura indefessa, sottrarre le ore al sonno, dimenticare, non dirò ogni diletto, ma perfino ogni sollievo della vita....» Così io orava al cospetto di quattro Ministri che mi avevano preceduto; nè alcuno sorgeva a confutarmi. Dopo alquante parole, io conchiudeva domandando una dichiarazione di fiducia.

      E il Consiglio, — non obliando la miserabile condizione nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta la Toscana, — deliberava unanime questa dichiarazione di fiducia, formulandola così: «Siamo grati agli espedienti che il Governo si affrettò di adottare.» — Non era anche venuta l'ora della ingratitudine!

      Nè meglio potrei dimostrare qual fosse Toscana quanto allegando una parte del mio Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848 mandato al Governatore di Livorno, più che ad altro somiglievole ad un grido di allarme: «Energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere

      In questo modo si confessava da ogni maniera di gente, così negli atti pubblici come nei privati, ed era vero, lo Stato ridotto agli estremi. Io lo trovai incapace a resistere a qualunque tenuissimo urto, pure lo sostenni in guisa, che i tumulti decrebbero, la fiducia pubblica incominciò a ridestarsi, e se il fatalissimo 8 febbraio non era, da quanti mali, da quanto lutto non mi sarebbe stato concesso preservare il paese!

      Forze governative pertanto affatto disperse, Polizia investigatrice distrutta, m'ingegnai fra gli antichi ufficiali scegliere alquanti che aveva sperimentato onesti e capaci; ma per quante istanze e raccomandazioni facessi loro, non vollero saperne: mi si mostravano invincibilmente repugnanti, perchè nell'ora del pericolo il Governo gli avesse lasciati in balía dell'ira popolare.[26] I Veliti, come si ricava dal mio Rapporto della Guardia municipale al Granduca, ormai chiamati ad altro destino, odiavano, e a ragione, il servizio di Polizia. La milizia, da quei medesimi che la capitanavano, era chiamata infamia, non tutela del paese. La Guardia Municipale non ancora composta.[27] Il Senatore Capponi, lo abbiamo non ha guari veduto, dichiarava in Senato la condizione del suo Ministero essere identica a quella del mio. Confesso di leggieri, che nè anch'egli sedeva sopra letto di rose; ma con sua pace, il divario appariva grandissimo fra il suo Ministero ed il nostro, però ch'egli possedesse la forza dei Carabinieri intera, e a me la consegnasse odiatrice ed odiata, percuotente e percossa. Sventura lacrimevole, che poteva essere risparmiata! No, le condizioni non apparivano uguali; tra il mio Ministero e il suo correva la guerra civile rotta, una sconfitta toccata dall'Autorità, un Popolo reso audacissimo per miserabile vittoria.

      Noi a mani giunte imploravamo lo aiuto di tutti, anche degli emuli nostri, per isvellere fino dalle radici la mala pianta del disordine; — gli supplicavamo a uscire dalle case loro, a scendere con noi fra la moltitudine per ammaestrarla, e ammonirla.[28] — Le preghiere nostre secondarono? Il soccorso supplicato compartirono? — Ah! no; secondo l'usanza pessima ed antica, a parole protestavano volerci aiutare, ma in fatto nè brogli, nè conventicole, nè qualunque argomento preterivano nello intento di rovesciare il nostro Ministero. Taluno, ponendosi la mano sul petto, sentirà che io dico il vero. In quanto a me, sappiate che conosco assai più cose di quelle che dico: potrei citare nomi, e disegni a me noti, e da me per longanimità lasciati inavvertiti; — ma la prudenza, che mai deve scompagnarsi da chi tenne officio supremo, desidera che alle provocazioni dell'Accusa io mi taccia.

      Tanto può la cieca ira di parte, che gl'incauti si affaccendavano ad abbattere il dicco estremo, che sosteneva la piena minacciante di sommergerli tutti. Queste cose sa il Principe, che deplorandone gl'imprudenti conati interpose l'autorità sua, perchè cessassero e forse glielo promisero; io però ebbi a provare che non lo attennero troppo.

      In questa parte concludendo, è lecito dire, che i Giudici, e l'Accusa non affermarono il vero, anzi esposero il falso, quando narrarono l'agitazione essersi manifestata sul declinare del 1848 soltanto. Nè ciò si creda che entrambi facessero senza consiglio, imperciocchè lo studio loro intenda, come ho avvertito, a mostrare che una forza rivoluzionaria fosse eccitata da me, crescesse, crescesse irresistibile fino all'8 febbraio 1849; nell'8 febbraio poi cessasse ad un tratto per ripigliare più tardi: così i fatti altrui fino all'8 febbraio s'imputano a me, perchè da me costretti; i fatti posteriori all'8 febbraio s'imputano parimente a me, perchè in me spontanei. A senso dell'Accusa, le forze rivoluzionarie stavano in potestà mia, come le cannelle dell'acqua fredda e dell'acqua calda quando entro nel bagno. Io però fui complice, o impotente per vizio di origine; nato in peccato mortale, non basta a salvarmi agli occhi dei miei Accusatori il battesimo della scelta sovrana; però importa osservare come i Ministeri precedenti, usciti al mondo immacolati, o immersi del bel Giordano nelle chiare acque, non riuscissero meglio a vincere la forza rivoluzionaria fino dai primordii. Eglino stessi lo confessarono, e ne addussero cause plausibili. La confessione, lo avvertano i miei Accusatori, è cosa che merita reverenza grandissima, perchè innalzata anch'essa alla santità di sacramento. Ora considerino, di grazia, se in tempi più grossi mi venisse fatto di adoperarmi con qualche vantaggio in benefizio del Paese.

      Quando mi giunse a notizia, come l'autore del Decreto della decadenza del Principe, scritto e proclamato sopra la Piazza Granducale il 30 luglio 1848 sotto il Ministero Ridolfi, continuasse la sua dimora in Firenze, irremissibilmente lo esiliai.[29] Preti, seminatori di scandali, pervertenti lo spirito dei campagnuoli, insinuanti che il Granduca costretto aveva consentito allo Statuto, non già di cuore e spontaneo, chiamai, ammonii, e corressi.[30] Torres, espugnatore delle Fortezze livornesi sotto il Ministero Capponi, ardito uomo, fu da me parimente bandito, e ritornato con manifesto spreto dell'Autorità, ordinai lo arrestassero e lo conducessero ai confini.[31] Alle censure acerbissime della stampa, per questo fatto, risposi: «Renda conto il Torres della sua passata condotta a Livorno, giustifichi il suo ritorno a Firenze, allora apparirà se la misura presa a suo riguardo fu arbitraria e vessatoria, o piuttosto opportuna e giusta.»[32]

      E qui giovi notare, di scancio, contro alla benevola insinuazione gittata là dal Decreto in mezzo a parentesi (Guerrazzi creduto autore principale dei moti livornesi), che se io fossi stato tale, non lo avrebbe ignorato il Torres; e alla mia invereconda provocazione non avrebbe egli risposto col verso di Clitennestra:

      «Chi mi vi ha spinto or mi rimorde il fallo?»

      Livorno ridussi in potere del Principe, quantunque, come attestava il Presidente Capponi, stesse in procinto di eleggere il governo provvisorio.[33] A moderare il passo continuo di gente nemica naturalmente di pace, il chiarissimo Mariano D'Ayala ed io osammo proporre al Principe il Decreto del 27 novembre 1848, dove si ordinava, che tutti quelli i quali presentandosi alle frontiere non si arruolassero soldati fossero respinti. Preposto a scrivere il Rapporto del Decreto, adoperai parole audaci,[34] che m'inimicarono coteste turbe, dove a poco bene s'incontrava mescolato parecchio male: però che i Popoli creduli reputassero profeti tutti quelli che paltoneggiando pel mondo si facevano le spese a nome della patria; e guai a colui che avesse ardito con parole o con fatti torcere pure un capello di quelle teste reputate sante. E solo osai ancora di più: gl'ingenerosi insulti (tollerati dai precedenti Ministri) contro i nemici repressi; tanto ebbi a schifo qualunque cosa, che magnanima veramente non fosse, tanto studiai di sollevare il cuore del Popolo ad alti concetti. Le parole che io dissi sul terminare del 1848, quando gli Austriaci erano lontani, posso ripetere adesso che sono in casa: «Non così (scriveva al Prefetto di Firenze), non così si educa un Popolo, nè se ne ritempra il carattere. Nè m'incresce meno considerare come si espongano al pubblico dileggio i nostri nemici. I nemici vanno vinti, Signor Prefetto, e non oltraggiati, imperciocchè lo insulto, prima della vittoria, sia stolta jattanza; dopo, СКАЧАТЬ