L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 26

Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069841

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СКАЧАТЬ intorno al collo in molto maestosa maniera; — uomini di grave sembianze, contegnosi e severi, siccome conveniva a cittadini di città libera, usi a obbedire alla legge soltanto e da loro stessi proposta ed approvata.

      E poi gli seguitava una bellissima accompagnatura di giovani, i quali per vaghezza di vedere la incoronazione dell'imperatore quivi erano tratti e per godersi delle feste; imperciocchè le pubbliche calamità, invece di trattenere gli uomini da simili passatempi, gli rendano anzi molto più vogliosi di prima, al naturale talento aggiungendosi il bisogno di sollevare l'animo dai presenti fastidii.

      Si aperse spontanea l'onda del popolo, accolse dentro di sè i sopravvenuti, e loro si richiuse fragorosa di dietro.

      Procedendo di alquanto spazio, prima degli altri, un ambasciatore, che sembrava il meglio autorevole, fissò di uno sguardo bieco i cavallari e, senza nessuna cosa domandare, senza nessuna risposta attendere, comandò:

      «Riponete le daghe.»

      E poi rivolgendosi al Montauto riprese:

      «Soldato, perchè assalite la nostra famiglia?»

      «Magnifico ed onorando signore, io non lo so...»

      «E senza saperne la cagione voi eravate sul punto di spengere due uomini... due cristiani!...»

      «In verità, magnifico messere, noi altri soldati facciamo sempre così. Per ammazzare gente non fa punto al caso saperne le ragioni e le cagioni. Se a voi piace conoscere più oltre, domandatene qui al mastro doganiere...»

      «Che mastro o che non mastro!» interruppe il cancelliere, il quale, nel considerare come verun conto si facesse di lui, tutto si scontorceva di rabbia. «Io ho dato l'ordine, ed io intendo ch'e' venga eseguito subito. — Subito frugateli, vi comando...»

      Ma il popolo, che aveva preso un tal quale diletto alle parole del personaggio, percosso ancora da certo ribrezzo per cotesto suo strido increscioso, rammentò le sevizie del cancelliere uso a infierire contro di lui; e prevalendosi della occasione di spaventare chi tanto spesso lo empiva di terrore, voltò l'immenso suo capo, terribile per mille occhi, — per mille bocche, — e lo interruppe a sua posta urlando:

      «Sta cheto, ribaldo!»

      E il cancelliere, umiliato, dimise lo sguardo, si morse lo labbra, sospirò: — ma quando rialzando gli occhi gli venne fatto vedere da lontano disegnarsi nell'orizzonte la cima delle forche, si fregò le mani e susurrò commosso, come il devoto che recita il responsorio al suo santo avvocato: «Là ti aspetto!» — e si tacque.

      «Mastro, vorreste o sapreste voi dirmi la cagione di questo trambusto?» continua, appena gliene fu dato luogo, l'ambasciatore volgendo la favella al doganiere.

      «Magnifico ed onorando messere, Sua Santità il sommo pontefice ci ha fatto, non è molto, significare il comando di sostenervi e guardarvi diligentemente nelle valigie: i vostri cavallari si sono opposti armata mano, e ser Manetta cancelliere del podestà ha chiamato la milizia per costringerli a forza.»

      «Guardare nelle nostre valigie! Ciò è fuori di ogni consueto e contro la convenienza. Ci credete voi forse frodatori di gabelle?»

      «Io vi ho in pregio di persona onorata e dabbene; ma voi intendete, messere, che noi siamo servitori, e ci tocca obbedire alle voglie del padrone.»

      «Orsù, vediamo se troverò io il modo di acconciare questa bisogna. Immaginate pure le nostre valigie piene di mercanzia gravata di gabella qual volete maggiore; io vi pagherò il dazio a prezzo di tariffa.»

      «È giusto!» il popolo interrompeva, «è giusto!»

      Allora le spie raddoppiavano gli sforzi e incitavano ora questo ora quello: «No, vogliam vedere; qui dentro gatta ci cova. — Ve lo aveva assicurato pur dianzi che portano veleno, e voi non la volevate capire: — vedete come s'ingegnano a non mostrare le valigie e non sine quare, — ci hanno il veleno, il veleno...»

      E il povero popolo traviato urlava di nuovo: «Vogliamo vedere! vogliamo vedere! Ci hanno dentro il veleno.»

      L'ambasciatore fiorentino, turbato da cotesto schiamazzo, sciolse con atti sdegnosi la sua valigia dalle groppe del palafreno e, la gettando ai piedi del doganiere, sclamò:

      «Guardate!»

      Il popolo urtandosi, in punta di piedi, l'uno con le mani su le spalle dell'altro, tutto occhi, tutto orecchi, a collo teso, a bocca aperta, stette a vedere che cosa contenesse la valigia dell'ambasciatore.

      Il doganiere vi stese sopra le mani, e profferite che ebbe così presto presto, come per uso, le parole:

      «Mi duole recarvi dispiacere», scioglie le fibbie e ne trae fuori:

      «Un lucco di panno vermiglio!»

      E il popolo:

      «Povere vesti sono coteste! I baroni spagnuoli e tedeschi le costumano d'oro e di seta.»

      E un vecchio del popolo:

      «Ma e' se le fanno co' nostri danari.»

      «Due farsetti di rascia cremesina e un cappuccio.»

      E il popolo:

       «I baroni li portano di velluto e di broccato, con belle piume e fermagli o medaglie che costano un tesoro.»

      E il vecchio:

      «Sì, un tesoro, ma a noi: — ai baroni la violenza per rubarlo.»

      «Una borsa piena di fiorini!»

      E il popolo:

      «Oh!»

      E il vecchio Petronio:

      «Nei fornimenti dei baroni spagnuoli e tedeschi bene avreste trovato la borsa, — ma vuota per riempirla de' tuoi ducati, popolo bestia che sei.»

      «Ha ragione Petronio! Viva il vecchio Petronio! Viva!»

      Continua la visita del primo ambasciatore: poi vennero con eguale diligenza frugati gli altri e la famiglia loro e l'accompagnatura, nella quale si trovò Benedetto Varchi scrittore della storia dei tempi presenti. Rimaneva di tanti un uomo solo, Guglielmo Rucellai, il quale anch'esso aveva seguitato gli ambasciatori per godersi le feste della incoronazione, giovine di piacevolissima natura e compagnevole se altri fu mai, grande amico del buon vino quando ne trovava, accomodandosi anche al tristo se non riusciva a scavarlo migliore: e la sera precedente alla osteria tanto ne aveva bevuto alla salute della libertà, tanto alla salute della patria, del Marzocco, della Signora, del Giglio, eccetera, come dicono i notari, che alla fine fu forza prenderlo in quattro e gettarlo sul letto. — Ora ei se ne stava intronato dalla ebbrezza non bene svanita, nè aveva potuto comprendere ancora la cagione di quel rovinio, quando il doganiere lo scosse dicendogli:

      «A voi, messere!»

      «Oh che c'è egli?»

      «La valigia!»

      «Basta che mi lasciate la vita, — per la valigia... o ne faremo un'altra, o ne faremo a meno...»

      Il doganiere apre, fruga, e:

      «Ch'è СКАЧАТЬ