L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 28

Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069841

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СКАЧАТЬ donare il Fatale, e chiamò il sacerdote a imporgliela sul capo. Il sacerdote si mosse a dargliela, imperciocchè egli potesse prendersela: ma quando si accostò all'altare, e il sacerdote incominciò le sue preghiere, egli impaziente vi stese le mani poderose e da sè stesso se ne cinse le tempie; allora il sacerdozio ebbe uno sfregio nella faccia il quale ormai non varranno a coprire nè benda di tiara, nè lembo di manto pontificio, sfregio che sembra una sentenza di morte incisa con ferro rovente sopra la carne: e tu saresti già morto, o sacerdozio, se alzando un grido di terrore altri non veniva a soccorrerti. Qual soccorso però! Per impedire la tua caduta, essi ti hanno posto ai fianchi due lancie per puntelli. — Ora che cosa hai tu fatto? Ti sei procurato una lunga e dolorosa agonia; tu hai voluto funestare le genti con lo spettacolo schifoso della tua decrepitezza.

      Ma se il sacerdote, quando il Guerriero fatale oltraggiò l'altare, avesse avuto il convincimento del sublime suo ufficio; dove bene avesse sentito sè essere vicario di Dio in questa terra, gli avrebbe rivolta la corona rapita e, la rompendo sopra i gradini dell'altare, avrebbe detto: — ecco io la spezzo, perchè tu la cingi alla tirannide dei popoli; — umiliati, pugno di polvere, davanti al Dio che cancella le intere generazioni col cenno del sopracciglio che solleva alitando un turbine di mondi; — e dov'egli ti avesse resistito, tu avresti levata al cielo la destra, e Dio l'avrebbe armata de' suoi fulmini.

      Adesso il cielo la ridonò alla tua casa, Carlo di Gand, — ma per quanto? — Poichè nel libro del destino non è concesso penetrare come nel libro della speranza, io abbandono il presente e il futuro, e ritorno nel tempo passato.

      Già ve l'ho detto: un giorno si apparecchia negli anni che Carlo vorrà liberarsi il capo da cotesto dolore di corona; — ora l'anelito dell'amante che per la prima volta aspetta la faccia desiata della sua donna è troppo poca passione per paragonarla a quella che agita Carlo.

      Contemplatelo nella sala del suo palazzo: corre più che non cammina da un lato all'altro, facendo sibilare per l'aria violentemente commossa la veste grave di oro tessuto e di gemme; talvolta si ferma davanti uno specchio di argento, e la mano ponendo sopra le chiome sospira: «Oh! quanto mi tarda averle coronate... Ferdinando mi aspetta; Lutero e Maometto minacciano la mia stella...» E all'improvviso volgendosi verso un cavaliere il quale presso al balcone con un telescopio alla mano pareva speculasse il firmamento, gridava: «Or dunque, Cornelio, il tempo buono viene o non viene?»

      «Divo Cesare, non è venuto.»

      E Carlo riprendeva a passeggiare agitato e mormorava: «Che questo sia il giorno più fausto della mia vita non può revocarsi in dubbio: in questo nacqui... in questo vinsi a Pavia... in questo prenderò la corona reale e imperiale[78]. Apostolo san Matteo, tra tutti i santi del paradiso un buon consiglio concepisti davvero quando prendesti a proteggere l'augusta mia vita... Tosto ch'io abbia danari, ti farò cesellare un altare e sei candelabri d'oro...» E così continuava.

      Cornelio Enrico Agrippa esercitava presso di Carlo l'ufficio di astrologo ed era anco medico e giureconsulto in utroque iure, facoltà le quali possono, anzi dovrebbero, andare unite insieme; ed egli ora lo aveva caro, ora lo rampognava e scherniva: ma l'astrologo, il quale troppo bene sapeva prendere il destro, nei giorni di favore gli estorceva in sì gran copia dignità e danari da consolarsi negli altri dell'oblio; e i modi di lui verso il suo reale padrone sentivano a un punto dello schiavo e del tiranno: se ruggiva il leone, ed egli blando, di parole carezzevoli, curvo col dorso; se invece esitava, ed egli superbo, rigido di persona, con la voce tonante. Non vestiva già zimarra bruna, nè intorno ai fianchi stringeva una cintura rabescata con i segni dello zodiaco, squallida la barba, in capelli scomposti, come gli altri suoi fratelli: al contrario, abbigliate le membra di bei drappi di seta alla foggia di Spagna, col collarino bianchissimo, arme e croce da cavaliere; a vedersi leggiadro. L'età sua o giungeva appena ai quarant'anni, o di poco li passava; di sembianze argute, di colore ulivigno, i capelli lucidi e neri, gli occhi più neri e del continuo agitati, le labbra tumide e accese, tremanti in perpetuo sorriso, il quale di leggieri si convertiva in sghignazzio, ed allora gli si scoprivano i denti e gran parte delle gengive, — siccome avviene a tutti gli animali che appartengono alla specie delle scimmie, quando loro accada di schiudere la bocca.

      Tale fu Cornelio Agrippa; e, di natura maligno, si compiaceva adesso di fare scontare a Carlo con le torture dell'ambizione il disprezzo di cui lo avviliva sovente. Appena nell'inquieto suo moto l'imperatore gli volta le spalle, egli staccando l'occhio dal telescopio guarda dietro il divo Cesare e crollando il capo dice:

      «Povera creta!»

      «Cornelio, fa che si operi presto la congiunzione dei pianeti», proruppe Carlo percotendo dei piedi il pavimento.

      «Sacra Maestà, io contemplo, non muovo le sfere. Però l'ora si avvicina: i miei occhi sono abbagliati dall'osservare lo splendore della vostra stella; io non ne posso più sull'anima del mio cane figliuolo[79].»

       «Non bestemmiare, marrano, o io ti consegno mani e piedi legati al papa nostro signore.... Perchè deponi il telescopio? Vien' qua, non temere, mio buon Cornelio; torna a guardare.... esamina bene... nota la congiunzione, la casa e il sembiante dei pianeti...»

      «O Zoroastro glorioso!» rispose l'Agrippa lasciandosi andare sopra una sedia a braccia aperte, «oh come ho io a fare? Voi mi volete cieco ad ogni modo.»

      «Cavaliere Agrippa, accettate di presente questi cento ducati per comperarvi del taffetà verde da asciugarvi gli occhi, — fin qui noi siamo imperatore eletto soltanto; domani, diventati imperatore consacrato, avrete dono imperiale.»

      «Meglio è perdere la luce nel contemplare la vostra stella che acquistarla nel guardarne alcun'altra... Io mi ripongo all'opera.»

      «Cornelio, dimmi, ma dov'è questa stella che tu affermi mia? Io ci credo senza averla mai veduta...»

      «E che importa vedere per aver fede? Dio vedeste voi mai?»

      «Non lo vidi, sibbene lo sento.»

      «E gl'influssi della stella non sentite voi? Chi vi fece eleggere imperatore dei Romani a preferenza del Cristianissimo? Chi rese le armi vostre fortunate? Chi vi mena davanti a un pontefice umiliato?»

      «Ma mostrami la stella: io voglio vederla...»

      «Accostatevi, Maestà, guardate dietro la direzione del mio indice, sopra la croce del campanile di San Francesco; alzate gli occhi, piegateli a destra in quella plaga del cielo...»

      «Non vedo... non vedo nulla.»

      «Aguzzate lo sguardo.... tendete, stringete forte le ciglia.... colà.... la vedete voi?»

      «Ahimè!» esclamò Carlo con ambo le mani cuoprendosi gli occhi, «io vedo... ho sentito il dolore di mille spade che mi pungessero le pupille, — un milione di atomi luminosi, una vertigine di fuoco....»

      «Or dunque pensate, se io possa o no sostenere il lume della vostra stella....»

      «Non importa... guarda... non istancarti di contemplare; io ti darò una duchea... un principato... ma guarda.» E tuttavia le mani soprapponendo agli occhi tornò a camminare di su e di giù per l'aula reale.

      «Cornelio Agrippa, fissandolo dietro e con quelle sue labbra aperte malignamente sorridendo, mormorò: «Vedi, ve' che teste da portar corona! Un'accensione di sangue cagionata dallo sforzo degli organi visivi egli scambiava in splendore di stelle.... ah!»

      «Agrippa!» esclama Carlo, calmata che fu la doglia delle sue pupille, «io voglio anche una volta veder la mia stella. — Additamela; io voglio...»

      «Silenzio! Ecco, la mirifica congiunzione СКАЧАТЬ