L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 29

Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069841

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СКАЧАТЬ è compito: dapprima lambiva rasentando Saturno... apportatore, per essere frigido e uliginoso, d'infermità corporee, come chiragra, podagra ed idropisia...»

       Qui Carlo trasse un gemito, perocchè una crudele podagra spesso lo tormentasse e gli facesse risovvenire che apparteneva anch'egli alla terra.

      «Possano i re non avere mai col mondo vincolo meno doloroso di questo», diceva in cuor suo l'astrologo maligno; quindi a voce alta continuava: «e poco dopo si spiccò dal pianeta di Saturno, e a modo di ninfa che corre co' capelli sparsi lungo la riviera, trapassò gran parte di cielo spandendo lontano il fulgore de' suoi raggi; si fermò alquanto nella casa di Marte, il quale l'accolse nella guisa che si ricevono gli ospiti augusti; quinci si rimosse tendendo alla stella di Giove, l'aggiunse, si ricambiarono un bacio di luce; ed ecco quella parte del firmamento ormai apparirà più chiara agli occhi mortali pei due astri fratelli. — O Cesare augusto, divo, fortunatissimo, concedi ch'io primo mi prostri ai tuoi piedi. Dopo Dio chi più potente di te? Il mio cuore, come tazza di soverchio piena, non può contenere la sua gioia; i miei occhi sono costretti a piangere lagrime dolcissime di tenerezza...» E prostrato abbracciava le ginocchia di Carlo.

      Stava per profferire più parole assai, quando Carlo, vinto dalla fumosità libera, prese ad esclamare:

      «Sento l'influsso della mia stella. — Che in paradiso un apostolo avesse cura speciale della nostra sacra persona, cel sapevamo; — che nel cielo girassero pianeti a noi propizii, non ignoravamo; grandi cose abbiamo fatto, più grandi ne faremo in seguito. Conquistato che avremo il mondo, chi ci insegnerà la via di arrivare agli astri del firmamento?»

      Cornelio Agrippa steso ai piedi di lui pensava: — Sta lieto, Carlo, con due dita di lama di Cordova tu potrai fare un assai lungo viaggio. —

      «Quale indugio è mai questo? I miei momenti sono secoli per gli altri: ogni istante della imperiale nostra vita contiene il destino di cento generazioni. Che fa egli questo neghittoso di papa? s'egli non istà pronto ai nostri cenni, noi lo rimanderemo come un veterano invalido...» — E così favellando alzò i piedi per balzare, sicchè forte percosse con uno nella bocca all'Agrippa, e poi correndo ad afferrare un campanello lo agitò violentemente a più riprese.

      Cornelio, sorgendo e con la mano tentandosi le labbra per vedere se lo avesse ferito, mormorava rabbioso: «Cane di Fiamingo, tu paghi le verità da re, — impiccando chi te le dice, — e le menzogne da sacerdote, con le promesse! Un giorno o l'altro, io faccio conto che tu abbia a inventare le indulgenze imperiali. Superbo e misero, io ti avrei lasciato e ti lascerò forse tra poco pel tuo emulo Francesco di Francia; un imbecille coronato al par di te, ma più prodigo di quello che rapisce ai suoi popoli: — trattanto io mi compiaccio di tormentarti... ho qui in tasca sei congiunzioni di stelle tutte funeste per te... per ora va' lieto a prendere la corona; per oggi il tuo demonio ti scioglie la catena: — ungiti del crisma; poi, unto o no, con la corona o senza, tu non sarai meno il trastullo dei miei ozii fantastici.»

      Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Cap. IV, pag. 102.

      Comparve alla subita chiamata il signore di Rodi, maggiordomo maggiore; il quale, semiaperta la porta, sporgeva il capo e parte del petto, non osando penetrare più oltre. Tosto che Carlo lo vide, lo interrogò dicendo:

      «Sire di Croy, qual'ora è ella?»

      «L'ora che piace a Vostra Maestà.»

      «No, Adriano», rispose blando Carlo, lusingato da cotesta sconcia piaggeria; «il sole non tramonta mai nei nostri regni, ma egli si mantiene pur sempre il re delle ore: se gli illustrissimi cardinali vennero, come spero, a incontrarci, dite loro che noi gli aspettiamo...»

      I cardinali Ridolfi o Salviati non istettero molto a presentarsi splendidi di cappe vermiglie; e tolto ambedue Carlo sotto le braccia, con molta solennità lo condussero all'aula reale del primo piano del palazzo.

      Quivi, parte delle pareti atterrando, avevano praticato certa capace apertura dove metteva capo un ponte magnifico, ornato di alloro, di mirto e con fronde verdissime di ogni ragione, decoroso per fasciature d'oro e per le armi alternate dell'imperatore e del pontefice, il quale percorrendo meglio che duecento braccia di cammino conduceva al tempio di San Petronio insensibilmente digradando; a mezzo il ponte, parata di splendidi arazzi, illuminata da mille torchi, sorgeva una cappella dedicata alla Beata Vergine fra le Torri.

      Uscendo dalla reggia per la indicata apertura, primo a toccare il ponte fu un drappello numerosissimo di giovanetti nobili, i quali e per la dovizia delle vesti e per la bellezza dei volti mettevano in tutti maraviglia e contento.

      Succedevano ai giovanetti, gentiluomini e cavalieri di varii ordini equestri, ognuno vestito alla sua foggia e decorato delle varie insegne dell'ordine a cui apparteneva; poi venivano baroni, conti, marchesi, duchi, principi del sacro romano impero e i primari ufficiali della corte di Carlo. Poco dopo, singolare a vedersi, compariva una immensa caterva di araldi abbigliati con svariatissime assise, spediti per assistere alla solennità della incoronazione non pure dai regni di Aragona, Navarra, Napoli, Sicilia, Granata, dalla Borgogna, dalla Germania e da molte principali provincie e castelli appartenenti a Carlo, ma ed anche da re e principi stranieri, come di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Boemia, Austria, Savoia e altri infiniti. Passati questi, sopravvennero i maggiordomi della corte di Carlo portanti mazza di argento in segno della propria dignità; ai quali teneva dietro Adriano sire di Croy, signore di Rodi, maggiordomo maggiore, tenendo alzata la sua mazza di mole assai più grande delle altre. Immediatamente subentrano, coll'ordine che sarà per noi riferito, i principi cui incombeva l'ufficio di recare gli arnesi all'incoronamento necessarii. Primo di tutti l'illustrissimo principe Bonifacio Paleologo, marchese di Monferrato; egli veste una cappa di seta di color vermiglio, sovr'essa un manto di porpora; gran parte delle spalla e del petto gli cuopre una pelliccia di candidissimi armellini. Lasciamo senza descriverli i molti ornamenti d'oro e di gemme, che davano bagliore in chiunque li contemplava; ma non possiamo trattenerci dal rammemorare la corona marchesale, con ingegno meraviglioso lavorata, insigne per gemme d'inestimabile valore. Nella mano destra egli porta lo scettro d'oro. Viene secondo lo strenuissimo e magnificentissimo Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, non meno di gemme splendido e d'oro del Paleologo, che porta levato lo stocco imperiale d'infinita ricchezza; seguita terzo il valoroso principe Filippo dei duchi palatini del Reno e di Baviera, doviziosamente ornato della corona e della porpora ducali, il quale sostiene il mondo dorato. Finalmente succede il potentissimo Carlo, duca di Savoia, anch'egli vestito della porpora ducale e incoronato di una corona che fu pregiata meglio di cento mila ducati; a lui spettava portare con ambe le mani le due corone reale e imperiale. — Ecco Carlo: — la gioia soverchia lo tinge co' colori medesimi della paura; ha il volto pallido, le labbra pavonazze, gli occhi spenti: e' sembrava un condannato tratto a guastarsi. I cardinali diaconi, avvolti di ampio piviale, col capo coperto di mitria, gli stanno a' fianchi; il conte Enrico di Nassau gli sorregge dietro la coda del reale paludamento. Secondo l'ordine e prerogative loro seguono gli oratori di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Boemia, Polonia, del duca di Ferrara, Veneziani, Genovesi, Sanesi, Lucchesi, Fiorentini, e di altri non pochi. In ultimo luogo i consiglieri e i secretarii del consiglio di Cesare, separati dalle altre turbe sorvegnenti da una mano di cavalieri armati di corazze d'oro, e di mazze d'arme dal manico d'argento.

      Giunto Carlo nella sacra cappella, il cardinale di Tortosa, commesso a tale ufficio mediante un breve del sommo pontefice, il quale fu letto dal vescovo di Malta, cominciò a salmeggiare le preci opportune alla solennità: concluse le orazioni, gl'illustri conti di Nassau e di Lanoia, custodi del corpo di Cesare, presero a spogliarlo nel petto e per le spalle di ogni sua veste, sicchè gli nudarono tutto il braccio destro e gran parte del seno. Allora il cardinale di Tortosa, non senza aggiugnere altre efficacissime preghiere, gli unse le coste e tutto il braccio coll'olio СКАЧАТЬ