L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 22

Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069841

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СКАЧАТЬ cotesta idra, di cui, ponete mente, se cento capi mordono per la libertà, cento altri mordono per la eresia...»

      Caso fosse o piuttosto astutezza, Carlo con siffatta sentenza veniva a porre il dito proprio sopra la piaga aperta nel cuore del papa; conciossiachè questi, messo subito da parte il pensiero del danaro, del quale come colui che grandemente misero e taccagno era, intendeva domandargli conto per industriarsi a rattrapparlo, se non tutto, almeno in parte, uscì nelle considerazioni gravissime che seguono:

      «Carlo imperatore, ora io dalla vostre parole comprendo come vi abbiano finalmente toccato lo spirito i consigli della Santa Sede. Le cose medesime che adesso vi sfuggono dai labbri non vi diceva Leone X? non vostro maestro Adriano VI? non io medesimo ve le ripeteva le mille volte? È tempo che il trono e l'altare si abbraccino per sostenersi; tempo che noi ci diamo un bacio diverso da quello di Giuda, — da quello che ci diemmo troppe volte, da quello che ci siamo dati fin qui. Finchè i popoli guelfi si mantennero o ghibellini, nè crederono potere altrimenti vivere che parteggiando per lo impero o per Roma, allora la nostra lite fu contesa tra i pastori pel gregge; — ora pur cotesto gregge incomincia a conoscere che può fare a meno della vostra aquila e delle mie chiavi si tramuta in torma di lupi, la quale non pure brama divorare, ma intende divorare sola. — Quando Lamagna tolse a difendere quel figlio di perdizione, Martino Lutero, io bene conobbi, ed altri uomini pratichi delle faccende umane conobbero meco, la querela non già, come sembrava, consistere nelle indulgenze compartite, nella comunione dell'ostia e del calice e negli altri punti di dissidenza contenuti nelle tesi di cotesto maledetto; no, i cervelli tedeschi, ansiosi di libertà, vaghi di mostrare la energia da lungo tempo compressa, intesero scuotere il dolce freno di Roma, come primo anello di una soggezione, qualunque fosse per loro insopportabile; rotto questo, vorranno romperne un altro... E della catena, Carlo pensate che voi ed io teniamo i capi. La riforma religiosa è palestra dove disegnano esercitare le forze loro per quindi volgersi alla riforma della potenza imperiale. Il giorno della morte dei papi sarà la vigilia dell'agonia pei re. Ben previde la gloriosa memoria dell'imperatore Massimiliano la importanza dei casi presenti; se la morte non lo rapiva, vi avrebbe provveduto di certo. — Voi, Carlo, le ammonizioni del Vaticano dal vostro spirito rigettaste come si scuote dai sandali la polvere di terra maledetta, voi la Chiesa santissima affliggeste, voi la sposa di Cristo ne' suoi vicarii avviliste; — ma più della sua Roma saccheggiata, più del suo pontefice ridotto in ceppi, ella piange a cagione del decreto della Maestà Vostra promesso alla dieta di Spira nel 1526, il quale sanzionò la tolleranza della setta diabolica dell'empio Lutero sino alla convocazione del concilio generale: nè per sè sola ella piange, ma ed anche per voi, Carlo; e dì e notte addolora e nel santuario si raccomanda al divino suo sposo Gesù che illumini l'intelletto vostro e sensi v'ispiri di pietà e di prudenza per scambievole nostra conservazione. I perversi settatori, nella ignoranza del cuor loro, fidenti che la Chiesa stia per esalare l'ultimo fiato, continuano nel cammino preveduto e minacciano il vostro trono imperiale. Ditemi, Carlo, la lega di Smalkalda testè stretta tra loro[70] vi ha guasto mai il sonno? I principi luterani si uniscono in un sol corpo ed implorano contro voi l'aiuto di Francesco di Francia. Se gli movesse amore di setta soltanto, vi pare egli che ricorrebbero a Francesco, vostro emulo eterno, e della Santa Sede apostolica figliuolo amantissimo? Già spento nel folle loro pensiero il lione di Giuda, si avventano all'aquila di Costantino[71]. Ah! Carlo, avete seminato il vento, badate a non raccogliere la tempesta.»

      Carlo ascoltava attentissimo il discorso di Clemente col collo teso e gli occhi fissi, nella guisa che il mendico guata per vedere qual moneta e quanta esca dalla mano del suo benefattore; — quindi, altamente commosso da quei raziocinii, prese a mormorare:

      «Egli ha favellato da quel valentuomo che il mondo conosce essere. Nè Aristotele mai nè san Tomaso d'Aquino potevano argomentare in più acconcia maniera.»

      «Ma se le vostre parole suonano sincere, Carlo, voi siete uno di quelli che il meglio vedono e approvano, mentre al peggio si appigliano. — Se quanto ne stringa bisogno d'imporre un freno ai popoli conoscete, se alle mie sentenze applaudite, se la tolleranza vostra della setta scellerata condannate, e perchè dunque, non ha guari, al Doria concedeste facoltà di rendere Genova libera? O tra i principii vostri ed i fatti manca concordia, o commetteste errore politico. Comunque sia, non giungo a comprendervi nè, considerate queste cose tutte, io posso nel solo vostro stato imperiale fidarmi abbastanza per vedere spenta la libertà di Fiorenza.»

      «La barca di san Pietro si governa con poche vele, Beatissimo Padre, ma ben altra si vuole industria a condurre le faccende del mondo. Se nella Germania poco mi valse la tolleranza dei Riformati, cotesto fu consiglio meditato lungamente e molte volte discusso tra i miei più savi ministri, — e i tempi che correvano ne furono per la massima parte cagione, e infine il fulmine dell'impero non diventò ancora per pazienza contennendo quanto il fulmine del Vaticano. Voi biasimate troppo. — Intorno a Genova, rammentatevi com'ella non si governi a popolare reggimento; vedete quivi la somma delle cose ristretta in mano agli ottimati: e credete, Clemente, i popoli preferiranno sempre la signoria di un solo a quella di pochi. — Fiorenza invece, non affatto aristocratica mai, ogni dì più pende alla democrazia. In lei soltanto contemplo e temo lo spirito di conquista; — ella cadrà. — Che mi parlate voi di messere Andrea Doria? Purchè abbandonasse le parti di Francia, gli avrei, non che altro, quasi donato la mia parte di paradiso. L'avventurato Genovese ha reciso l'ale alla vittoria e se l'è fatta serva. Ma se al Doria concessero i cieli la facoltà di vincere, non gli compartirono del pari l'arte di governare; egli cede al mio genio. Sembra a voi ch'io gli abbia posto nelle mani una palma, e v'ingannate; io ho fatto come gli incantatori, i quali, affascinando, donano cenere per oro. Deluso dalle mie parole, gli porsi a stringere una spada per la punta, non già per l'elsa, sicchè egli vi si taglia la destra nè se ne accorge ancora. Può egli il Doria ritornare privato? Il cittadino che di tanto prevalse nella sua patria da rivendicarla in libertà, ond'ella si mantenga libera davvero, deve come Licurgo salire un rogo e ordinare che la sua cenere sia dato ai quattro venti della terra: — messere Andrea invece vive e governa nella sua città. Gli umori dei nobili genovesi non quieteranno mai: io già vi scorgo invidie, odii e rancori di sangue. I Fieschi le ire apparecchiano e le armi: lasciamo che il furore di cotesta famiglia si accresca; allora le fazioni cittadine diventeranno più funeste alla città, si turberanno gli ordini, andrà sottosopra lo stato e, povero di viveri, vuoto di sangue, implorerà come elemosina un braccio potente che possa farlo morire in pace. — Nè il desiderio mi trasporta a immaginare cose vane; altre volte i Genovesi ne hanno somministrato l'esempio, dandosi in balìa dei duchi di Milano e dei re di Francia; inoltre Andrea Doria percorse gran parte del suo cammino vitale; la sua famiglia procede diversamente da lui: — la sua virtù rimarrà sepolta seco. — Io vedo tempo nel quale la repubblica di Genova viene come un ruscello a portare il tributo delle sue acque nel fiume maestoso della mia potenza. — Ordisco una gran trama col pensiero, ne seguo con costanza le tracce, ne aspetto con pazienza l'esito avventuroso.»

      Clemente papa, col mento sollevato, guardava Carlo V e ad ora ad ora crollava la testa tra pago e sdegnoso; sdegnoso nel conoscere l'intimo concetto di lui, contento per averlo preveduto da gran tempo: e poi offeso da quella serie di pensieri di gloria, come il tristo fanciullo gode scompigliare con una pietra le limpide e quete onde del lago, vi lanciò malignamente tra mezzo la domanda:

      «E alla morte ha mai pensato Vostra Maestà?»

      L'imperatore, quantunque per natura cupissimo, nondimeno a cagione della stessa intensità de' suoi pensieri lasciava vincersi talvolta dalla passione, ed esaltato, non sapeva così di leggieri reprimere la favella; sicchè continuava dicendo:

      «La Francia è giglio fragile, eia mia aquila lo ha già sfrondato; — se non m'ingannava un mal genio, tu a quest'ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte imperiale; — la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: — leopardo inglese, dacchè lasciasti comprarti le branche, apparécchiati a darmi la tua corona in cambio de' miei ducati; — e tu, san Pietro, sappi che la mia testa è capace di portare ancora... la tiara... perchè no? Massimiliano imperatore voleva farsi papa...»

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