L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 20

Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

Серия:

isbn: 4064066069841

isbn:

СКАЧАТЬ proprio palazzo, — nudo, — assiderato dal freddo, — supplicante una elemosina, — che l'imperatore nella mente superba esultava concedere larga ed amara, — e il papa invece si compiaceva negare, via procedendo in sembianza di non accorgersi di quel caduto. Imperciocchè, quantunque il cardinale di Richelieu non avesse ancora insegnato la regola, il cuore di Clemente VII aveva per istinto sentito, le donne e i sacerdoti non dovere perdonare giammai[55].

      E non pertanto adesso stavano intesi a comporre gli antichi rancori, a discutere che cosa avrebbero guadagnato a mutare l'odio in amicizia, a stringersi le mani per quindi insieme aggravarle più peso sopra il collo dei popoli.

      Gli accoglieva magnifica sala, di seta splendida e d'oro, con la vôlta dipinta da uno dei più valenti artefici che resero quel secolo singolare nella storia dell'arte.

      E il dipinto della vôlta rappresentava il concilio dei numi, il convito degl'immortali che pure erano morti, Giove l'antico onnipotente, che adesso non poteva più nulla, e le altre divinità bandite dalle dimore dei cieli. Eppure cotesta religione ebbe una volta adoratori, martiri, voti, preghiere, superstiziosi, dileggiatori, olocausti di bestie, olocausti di uomini e sacerdoti crudeli; ora poi non se ne rinviene memoria in nessun cuore, ed è forza cercarla sui libri: religione da eruditi, religione da pittori per decorarne le vôlte o le pareti delle sale.

      Cotesta religione doveva dileguarsi davanti un'altra religione di amore e di pace che gli uomini predicò fratelli e maledì l'uomo il quale tormentando faceva piangere la creatura di Dio. Ma il tristo seme d'Adamo, sfidata la maledizione celeste, contaminò l'opera dell'Eterno; la nuova religione circondò di terrori, di superstizioni, di scherni, di vittime umane, di sacerdoti crudeli e, per aggiunta, dei papi — re e sacerdoti, — i quali si cingono con tre corone la testa, come per simbolo che pesano funesti alla terra tre volte più dei re, somiglievoli in tutto all'antica chimera, congerie mostruosa di drago, di capra e di lione, però non come la chimera favolosi, ma vivi pur troppo e palpitanti e laceranti nelle sedi del Vaticano.

      Clemente VII e Carlo V insieme ristretti s'ingegnano a ordire un patto che valga a costringere le generazioni per sempre dentro un cerchio fatato, dentro una rete di diamante; si affaticano a rinnovare l'esempio di Prometeo, apparecchiando all'umano intendimento catene eterne e l'avoltoio divoratore. — Stolti! Se gli occhi declinavano al fuoco che ardendo loro davanti nel marmoreo camino aveva ridotto in cenere copia di legna, se verso la vôlta gli rialzavano dove erano effigiate le immagini degli dêi come caratteri d'una lingua che più non s'intende, avrebbero compreso: «le cose nostre tutte hanno lor morte, — siccome noi[56],» e l'opra infaticabile del tempo rompere le trame orgogliose degli uomini non altrimenti che fossero veli di ragno.

      Seduti entrambi, Clemente da un lato, Carlo dall'altro di una lunga tavola coperta di velluto cremesino a frangie d'oro, con le insegne della Chiesa ricamate in oro; e sovr'essa carte e pergamene di ogni maniera, — brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e satira delle scambievoli loro insidie, quali col suggello di Spagna, quali colle armi dell'impero, parte con le palle dei Medici, parte ancora con la immagine di san Pietro che pesca[57] e invano rammenta al superbo pontefice la povertà della chiesa primitiva di Cristo.

      E qui i suoi negli occhi di Carlo V fissava, il quale imperturbato se ne sta con le spalle volte al camino... Cap. II, pag. 67.

      Con benigne sembianze si contemplano: ma l'anima di Clemente nel suo segreto si strugge d'invidia per Gregorio VII, a cui fu tanto la fortuna cortese che gli trasse davanti nella rôcca di Canossa l'imperatore Arrigo IV con i piè nudi e il capestro al collo, ad implorare tutto umiliato misericordia per Dio: Carlo poi forte gemeva di desiderio nel cuore rammentando la felicità di Filippo il Bello, il quale non pure potè mettere le mani addosso a Bonifazio VIII in Alagna, ma fare anche in modo che, siccome era vissuto da volpe e regnò da lione, così morisse da cane[58].

      Egli era potente di giovanezza e di forza, sicchè le imprese delle varie sue armi potevano denotare in quel tempo gli attribuiti diversi dell'animo e del corpo di lui; in esso la vigoria del lione di Borgogna, in esso la tenace immobilità delle torri di Spagna, in esso finalmente lo sguardo dell'aquila austriaca, — sguardo di preda, — sguardo di cupidigia insaziabile. Quanto gli acutissimi suoi occhi sopra le carte geografiche del mondo potevano contemplare, tanto bramando il suo pensiero abbracciava. Se il Creatore aveva dato alla terra una cintura di mari, egli, la corona del suo capo dilatando, intendeva racchiudervi dentro la terra e l'oceano; — a guisa di cancelli eterni disegnava porre le punte del suo imperiale diadema là dove il creato termina, e l'abisso incomincia.

      Fronte ampia, dove i pensieri incalzavano del continuo altri pensieri, come fanno le onde del mare. All'improvviso però cotesta fronte di rugosa diventa piana, i concetti vi si aggirano sconnessi nel modo appunto ch'è fama volassero con sùbita vertigine per l'antro della sibilla le foglie ove stavano scritti gli oracoli del dio. — Cotesta vicenda istantanea rammentava il metallo, il quale, prorompendo infiammato dalla fornace per fondere la statua di un eroe, spezza talora la forma e si disperde nelle viscere della terra. Aveva con i regni eredato i vizii del sangue de' suoi maggiori. Il padre, Filippo, gli trasfuse nelle vene l'anelito perpetuo di dominio dei principi austriaci e l'ardimento dei duchi di Borgogna[59]. La madre, Giovanna, gli dava la cupa penetrazione dei sovrani di Spagna e il germe della infelicità che oppresse la vita di cotesta infelice regina.

      Esultino i popoli! il dolore si posa anche sulla corona dei re; — anzi più sovente sopra le sublimi che non sopra le teste dimesse, in quella guisa che l'uccello di sinistro augurio presceglie a sua dimora la torre del barone in preferenza dal tetto della capanna del povero; — il dolore si spande sopra le gemme dei diademi e fa parere anch'esse lacrime o gocce di sudore affannoso; il dolore corrode internamente il cerchio d'oro e stringe inosservato le tempie, come la striscia di ferro della corona lombarda[60].

       Esultino i popoli! perchè i potenti gemono, ed eglino possono rifiutare l'elemosina della compassione, — o rispondervi con un eco di scherno.

      Giovanna, figlia di Ferdinando e d'Isabella, moglie dell'erede di Massimiliano imperatore, signora delle Spagne, dell'Indie, dei Paesi Bassi, forse di mezza Europa, non ha chi la uguagli in miseria. Almeno Niobe fu convertita in pietra e cessò a un punto le lacrime e la vita: ella poi deve durare lungamente in tale uno stato che non può dirsi vita e non è morte, — a piangere la sua ultima lacrima, a bevere l'ultima stilla di un calice senza fine amaro. Costei delirava d'amore per Filippo, e Filippo la fuggiva, ed in breve consunto da amplessi che non erano suoi, sul primo fiore di giovinezza le morì tra le braccia. Le tolse la mente l'angoscia: stette muta, ordinò prima si seppellisse il cadavere; poi, cambiato consiglio, volle si imbalsamasse; lo vestì di abiti magnifici, lo stese sopra un letto di broccato, e quindi si pose ad aspettare che si svegliasse, imperciocchè aveva sentito dire di un re il quale era resuscitato dopo quattordici anni dalla sua morte; preso da geloso furore, non consentiva che donna alcuna si accostasse a quel letto; se ministro o consigliero andava per consultarla, il dito gli ponendo sui labbri, bisbigliava sommessa: «Aspettate che il mio signore si svegli.[61]»

      Tale fu la madre di Carlo, e tale fu egli stesso quando, dalle infermità domato e dagli anni, mutò la porpora imperiale in cocolla da frate, e rotta la corona sopra la soglia di un convento, dei bricioli se ne fece un rosario per contarvi sopra i paternostri e le avemarie. Dopo tanto sorso bevuto alla coppa del potere, la gettò via lontana da sè, quasi lo avesse inebbriato di fiele. Miserabile! Chè quando a Laredo in Biscaglia baciò la terra dicendo: «O madre comune degli uomini, nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo ritornerò nel tuo[62]», cotesto grido non mosse mica da anima fortemente contristata, bensì fu lamento neghittoso di pellegrino il quale si lascia cadere sull'argine della via e quivi aspetta piangendo la morte. Nè quando volle innalzarsi il feretro e assistere vivo alle sue esequie[63], lo vinse ira o disprezzo o fastidio degli uomini, come Silla e Diocleziano, sibbene la paura dell'inferno. Prima che lo cancellasse la morte dal libro dei viventi, СКАЧАТЬ