L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Название: L'assedio di Firenze

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066069841

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СКАЧАТЬ i cavalieri beati; — spronano, — sferzano i cavalli, come se il ghiaccio della spada sentissero penetrarsi nei reni: ah! cotesta è una gara di corsa di cui sarà dato in premio l'infamia.

      Precorre a tutti il commessario Antonfrancesco Albizzi, come quello che migliore destriero cavalca, e cui stringe più forte la paura. Se lo sapesse il nemico, rimarrebbero oppressi tutti, senza potersene salvare uno solo! Di quanto scherno non darebbe cotesta fuga argomento, se la sapesse, al nemico! Il Ferruccio declinando per vergogna la faccia, gli viene fatto di posare lo sguardo sopra la città. Una testa si affaccia alla finestra, — poi due, — poi cento, come le rane in palude, passato il rumore di che hanno avuto paura, si levano sulle acque contaminate e ritornano al gracidare increscioso. Di lì a breve le porte delle case si schiudono, e vedi uscirne uomini ratti ratti che traversando le strade si recano ora da quel cittadino, or da quell'altro, nel modo stesso che il serpe vibra la lingua, o i ramarri, nei giorni canicolari, si lanciano rapidissimi di cespuglio in cespuglio: — cominciano a radunarsi i capannelli; ci ascolta una sorda agitazione; la plebe prorompe; lontano si diffonde un trambusto, uno schiamazzo, un battere di tamburi, un urlare: Viva san Donato! Viva l'imperatore! Morte a Marzocco[44] morte a Marzocco! O popolo, quante volte hai gridato e dovrai ancora gridare — Viva la morte, e morte alla vita! Dalla tua ignoranza acciecato, e dalle lusinghe altrui sedotto, per quanto tempo ancora il tuo destino sarà quello del bove — vita di bastone, morte di macello!

      S'innalza una bandiera imperiale col verso di Zaccheria scritto all'intorno: ut de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus tibi; cresce il tumulto; le armi della repubblica Fiorentina atterrate: l'onda del popolo bramosa di mettere le mani nel sangue allaga le strade: ogni cosa in confuso; amici tremano e nemici; la fiera ha rotta la sua catena; guai a chi la incontrerà!

      Un tanto evento non sembrava partorito dalla occasione, e veramente non era. Di lunga mano i cittadini cospiravano: le occulte trame adesso si discoprivano.

      Arezzo, un tempo dai marchesi e dai conti governata, dopo il secolo undecimo, a guisa delle altre città di Toscana e la più parte d'Italia, in repubblica si costituiva. Nei padri nostri la virtù difettasse o la sapienza, non seppero legarsi in vincolo federativo, il quale come la quiete interna assicurasse, così potenti di fuori gli rendesse e temuti. Della libertà civile praticarono un solo argomento, quello della partecipazione di qualsivoglia cittadino agli uffici supremi dello stato; la sicurezza individuale, nè statuirono nè per avventura conobbero. Eternamente con miserabile guerre si lacerarono; e quando lo straniero venne a ridurre in servitù le belle contrade, invano chiamarono i figli generosi; giacevano spenti, — nè i sepolcri restituirono i morti. In coteste scellerate contese, sopra tutti insanirono i popoli aretini; oltre misura rissosi, il nome ebbero di cani botoli, e l'Alighieri vi aggiunse:

      Ringhiosi più che non chiede lor possa[45].

      Poichè nei casi dei governi la libertà disordinata mena sempre alla licenza, e la licenza genera tirannide, tosto comparvero i signori. Guglielmo Ubertini, vescovo, conquistò Chiusi, vinse i Sanesi alla Pieve al Toppo: abbandonato dalla fortuna, rimase vinto a sua posta e morto nella giornata di Campaldino, dove il nostro maggior poeta si trovò a combattere tra le prime schiere. Meglio per lui, se non avesse mai il pastorale mutato con la spada; o se, avendo cinta la spada, l'adoperava in impresa più santa, perocchè egli fosse uomo prode di guerra e di virtù antica.

      Dove vivono genti disposte a servitù, i padroni si rinuovano; chè, cessato il tiranno, rimangono le cause della tirannide: agli Ubertini subentrano i Tarlati. Guido Tarlato di Pietramala, stretta lega col Castruccio, continua a travagliare Firenze. Non pertanto Arezzo, vuota di sangue, si piega al dominio fiorentino. Piero Tarlati, più noto nelle storie col nome di Pier Saccone, tentato invano ogni estremo rimedio per mantenere indipendente la patria, si accomoda col comune di Firenze e gliela vendè per trentanovemila fiorini d'oro; mostruoso accoppiamento di virtù e d'avarizia! Nel 1343, cacciato da Firenze il duca di Atene, gli Aretini ricuperarono la libertà; ma al buon volere mancando la potenza per sostenersi, non istette guari che in sua potestà li ridusse Ludovico duca d'Angiò. Lui morto, i Fiorentini con quarantamila fiorini di nuovo la comprano dal capitano che in nome del duca la governava. Il popol vile, venduto a guisa d'armento, stette nel dominio di Firenze fino al 1502; allora si ribellò, non per virtù propria, ma instigando Vitellozzo Vitelli generale del papa Alessandro VI; il quale, sotto colore di vendicare la morte di Paolo suo fratello, condannato dai Fiorentini ad avere mozza la testa pel tradimento di Pisa, invero poi per allargare lo stato a Cesare Borgia, che lo pagò più tardi a Sinigaglia[46], si condusse con l'esercito su quel di Arezzo. I Fiorentini, d'armi sovvenuti e d'istanze presso papa Alessandro da Luigi XII di Francia, lo riconquistarono. Nicolò Machiavelli, nella presente occasione consigliando sul modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, scriveva dovesse la Signoria assicurarsene nel modo prescritto dai Romani[47], i quali pensarono: «che i popoli ribellati si debbano beneficare o spegnere; essere ogni altra via pericolosissima; a lui non parere nessuna di queste cose avessero praticata, perchè non si chiama benefizio far venire gli Aretini a Firenze, toglier loro gli onori, venderne le possessioni, sparlarne pubblicamente, tener loro soldati in casa; nè chiamarsi assicurarsene lasciare le mura in piedi, lasciarvi abitare i cinque sesti di loro, non dar loro compagnia di abitatori che li tenessero sotto, e non si governare in modo con essi che, nelle guerre che fossero fatte a Firenze, non avesse più a splendere in Arezzo che contro il nemico:» onde, bene considerato il termine col quale la Signoria la teneva, egli formava questo giudicio sicuro: «Che come fosse assaltata Fiorenza, di che Iddio guardi, o Arezzo si ribellerebbe o darebbe tale impedimento a guardarla che la sarebbe spesa insopportabile alla città.» I modi praticati dalla Signoria nè amore rivelavano nè vigore, e il popolo presuntuoso, anzichè attribuirli a benevolenza d'indole o ad esitanza, gli attribuiva recisamente alla paura e si faceva più pronto alle offese. Accostandosi i nemici, ordinarono ai cittadini sospetti sgombrassero le città, a Firenze si presentassero: tardo e debole provvedimento. Nelle commozioni dei popoli voglionsi bene esaminare le cause per le quali accennano muoversi, e secondo la diversità di quelle usare degli opportuni rimedi. Se il popolo, agitato dalla passione di una famiglia o di un uomo s'infiamma, cotesto ardore dura poco, e tolta via la famiglia o l'uomo, può stare sicuro che in breve si quieterà; dove poi il popolo si muova per passione propria, a nulla giovano i bandi o le morti di alcuni cittadini; di tutti i semi quello che abbiamo veduto partorire maggiore copia di messe è il sangue dei martiri della libertà versato sopra la terra della oppressione, egli troverà sempre un Lando e un Masaniello; nè al potere riescirà spegnerli tutti, imperciocchè troppi sieno coloro nel petto dei quali arde un fuoco divino che aspetta tempo a manifestarsi. Allora bisogna o nei suoi desiderii compiacere il popolo, o con molte soldatesche frenarlo, o, snaturandone gradatamente lo spirito, assuefarlo a servitù, come fece Cosimo I a noi Toscani, o diroccarne le mura, gli abitatori disperderne, seminarne il terreno di sale, come fece Federico I ai Milanesi, i quali due ultimi spedienti, oltre all'essere tirannici, talvolta riescono incerti, ed invero valsero a Cosimo, a Federico no. E poi, alle cause interne di ribellione si aggiungevano gli stimoli di fuori. Il conte Rosso da Bevignano, citato come sospetto a comparire davanti Simone Zati commissario, fuggì di Arezzo e prese soldo nel colonnello di Sciarra. Divenuto caro al principe di Orange per la sua piacevole natura e più per l'ingegno maravaglioso col quale sapeva condurre le imprese avviluppate e difficili, cominciò, secondo il costume dei fuorusciti, a dargli ad intendere che avrebbe ribellato Arezzo, che stava in sua mano il destino della città, che la voleva consegnare a lui solo; e a queste aggiunse altre più cose assai, a cui il principe o credendo o piuttosto simulando credere, gli diede patente amplissima per vedere che cosa e' sapesse fare. Il conte si abboccò con i suoi partigiani, gli adescò con l'antica lusinga della libertà, come se ribellarsi a Firenze per vivere nel dominio del principe potesse chiamarsi libertà, apparecchiò armi, raccolse danari, e le bandiere notate da Lupo alle finestre della villa erano il segno convenuto pel quale i congiurati, mosso rumore in città, dovevano dare campo a quei di fuori di assalire le mura senza troppo lor danno. Veramente, se la codardia dell'Albizzi non fosse stata, cotesta impresa avrebbe avuto il termine a cui vediamo ogni giorno capitare i tentativi dei fuorusciti; ma in ogni modo adesso si facevano manifesti i prudenti consigli di Nicolò Machiavelli e la imprevidenza dei capi.

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