Il Bramino dell'Assam. Emilio Salgari
Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу Il Bramino dell'Assam - Emilio Salgari страница 6

Название: Il Bramino dell'Assam

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

Серия:

isbn:

isbn:

СКАЧАТЬ possa dissanguare completamente un uomo sorpreso nel sonno od una vacca.

      Si accontentano di poche gocce, poi se ne vanno, e quelle leggère cavate di sangue, per uomini ed animali che vivono sotto un clima ardentissimo, sono quasi più utili che nocive.

      Anche i bighama, i piccoli lupi indiani, che vanno in grosse bande, e che non sono però affatto pericolosi per gli uomini, cominciavano a lasciare i loro nascondigli, annunciandosi con ululati che finivano in una nota acuta straziante. Dovevano aver già fiutate le gigantesche prede che giacevano inerti in mezzo alla foresta, ed accorrevano da tutte le parti, a corsa sfrenata, per paura di giungere troppo tardi al banchetto.

      Yanez, tanto per passare il tempo, o meglio per ingannare il suo malumore, ne fucilò cinque o sei che avevano avuto l’audacia di galoppare a fianco del carro, facendo scappare, col rombo della sua grossa carabina che sembrava una mezza spingarda, tutti i pipistrelli volteggianti sotto le piante. Alle foreste di tara e di latanieri, successe ben presto un’altra magnifica foresta dove l’elefante poteva inoltrarsi senza grandi sforzi. Era formata tutta di palas, piante che non crescono addossate le une alle altre, quantunque i loro tronchi nodosi, coronati da un fitto padiglione di foglie vellutate, siano sempre collegati fra di loro da ammassi di liane che un buon colpo di proboscide può facilmente abbattere. Sahur si è messo in corsa, minacciando di sfasciare l’enorme carro, sicché il cornac è costretto a moderare il suo ardore, perché non succeda una disgrazia al principe ed ai suoi cacciatori, che si sballottano sui loro soffici materassi.

      Anche la foresta di palas è attraversata ed apparve una vasta pianura dove giganteggiano i kalam, spingendosi perfino a quindici piedi d’altezza, in mezzo ai quali volano bande di magnifici pavoni, volatili rispettati da tutti perché per gli indiani rappresentano la dea Sarasvati che protegge le nascite ed i matrimoni. All’estremità di quella pianura, quasi tutta invasa da male erbe e con pochissime risaie e piantagioni di senapa, all’ultimo raggio di luce compare Gahuati, la capitale dell’Assam, che racchiude dentro i suoi vecchi eppure ancora saldi bastioni, più di trecentomila anime.

      «Finalmente» disse Yanez, respirando a lungo. «Ora, cornac, puoi lanciare l’elefante, e se passerà sui terreni coltivati pagheremo i danni ai poveri agricoltori». «Il carro può sfasciarsi, Altezza» rispose il conduttore. «Non preoccupartene. Cadremo insieme ai materassi».

      Carro ed elefante ripartono con un fragore infernale, aprendosi un immenso solco fra le altissime erbe, e dopo una mezz’ora, senza aver troppo danneggiato i pochi terreni coltivati, entrano nella capitale per una delle venti porte. Un drappello di soldati che indossa le pittoresche divise dei sipai, scintillanti d’argento, presentano le armi a Yanez che risponde bonariamente con un: «Buonanotte, ragazzi».

      Subito otto cavalli, bardati alla turca, colle staffe corte e le gualdrappe fiammanti, vengono fatti uscire da una casamatta. Yanez ed i suoi uomini lasciano il carro, montano in sella e partono ventre a terra, gridando a squarciagola: «Largo!… Largo!…»

      Le vie sono ancora affollate, perché la rhani dell’Assam ha regalato ai suoi sudditi una specie di illuminazione notturna formata da maestosi e pittoreschi lanternoni cinesi.

      Al passaggio del principe tutti fanno posto, salutando rispettosamente, sicché in meno di cinque minuti il drappello giunge dinanzi al palazzo imperiale, un edificio tutto in marmo, di dimensioni gigantesche, con cupole, terrazze e vasti cortili.

      Yanez balza agilmente a terra e sale precipitosamente la gradinata, seguito da Kammamuri. Il primo uomo che vede è Bindar, il bravo cavaliere che colle sue audaci evoluzioni ha stornata l’attenzione dei bufali, liberando per il momento il carro. È sfuggito miracolosamente al grave pericolo, poiché non ha nessuna ferita. Dietro di lui compariscono subito tre vecchi indiani dalle lunghe barbe bianche, con giganteschi turbanti ed ampie vesti di seta che scendono fino sulla punta degli stivaletti a punta rialzata. Tutti sono armati d’un tarwar che ha l’impugnatura d’oro e che è squisitamente cesellata. Sono i tre ministri che guidano il carro dello stato.

      Yanez, senza rispondere ai loro inchini, si avvicina al più vecchio e domandandogli subito, con voce un po’ alterata: «Ebbene, Bharawi, un altro nuovo delitto è stato dunque commesso?» «Sì, Altezza: il tuo primo ministro è stato avvelenato».

      «Dove si nascondono questi avvelenatori? Un giorno o l’altro manderanno all’altro mondo anche noi tutti, per Giove!… Mia moglie? Mio figlio?» «Stanno benissimo, Altezza».

      «Ho tremato per loro. Dov’è il morto? Vediamo se si può scoprire in quale modo lo hanno avvelenato». «È nella sala degli smeraldi».

      «Andiamo subito e non lasciate entrare nessuno fuorché Kammamuri e Bindar che sono fedeli a tutta prova».

      Attraversarono un immenso cortile, circondato da porticati di stile moresco, ed entrarono in una vasta sala che aveva le pareti di marmo verde, luccicanti quasi come enormi smeraldi.

      In mezzo, su un letto basso, coperto da una leggera trapunta di seta azzurra, giaceva un uomo già assai vecchio.

      Il suo viso era spaventosamente alterato. I suoi occhi, grigi come quelli d’una vecchia tigre, parevano dovessero uscire da un momento all’altro dalle orbite. La bocca, contorta da un ultimo spasimo, mostrava i denti, anneriti per il lungo uso del betel.

      «Basta uno sguardo per capire che quest’uomo è stato avvelenato» disse Yanez, tergendosi con un fazzoletto di seta alcune stille di sudor freddo che gli imperlavano la fronte. «Che cosa ha bevuto?»

      Bharawi si avvicinò ad un piccolo mobile che somigliava ad un pavone e tolse una bottiglia ed un bicchiere di cristallo purissimo, porgendo l’una e l’altro al principe.

      Nella bottiglia, che sapeva fortemente d’arancio, vi erano ancora tre dita d’acqua d’una brutta tinta rossastra. Yanez fiutò a lungo, poi scosse il capo mormorando fra sé:

      «Sono troppo abili manipolatori di veleni questi indiani fra sé per capirne subito qualche cosa».

      Prese una sedia a dondolo, riaccese la sigaretta che aveva lasciata spegnere e disse a Bharawi: «Ora raccontami tutto».

      «Tu sai, Altezza, che tre giorni fa si è presentato qui un bramino per chiedere una grazia».

      «Per Giove, se mi ricordo!…» rispose Yanez. «Voleva che gli accordassi una miniera di diamanti senza pagarmi una rupia, altro che grazia! Era un lurido ladrone, e l’ho mandato più che in fretta a riprendere le sue preghiere nella pagoda. Ora continua!»

      «Stamane», riprese il vecchio ministro, «tre ore dopo che tu eri partito, si è ripresentato insistendo per parlare col tuo primo ministro che stava riposandosi appunto su questo letto». «Ancora per l’affare della miniera?» «Non si sa, poiché il ministro ed il bramino sono rimasti assolutamente soli». «Ed è stata una grande imprudenza, signori miei». «È vero, Altezza, una imprudenza che egli ha pagato colla vita».

      Yanez si era alzato gettando via, con un moto rabbioso la sigaretta, e si era messo a passeggiare per l’ampia sala colle mani affondate nelle tasche. Appariva assai preoccupato, anzi quasi sgomentato, eppure coraggio e sangue freddo ne aveva da vendere a tutti i suoi sudditi. Si arrestò dinanzi alla bottiglia, tornò a fiutarla e non sentì che un leggero odore acre, attenuato assai dall’aranciata.

      «Che veleno credi tu che sia, Bharawi?» chiese. «Tu sei indiano e più vecchio di me, e tu ne saprai di più».

      «Io credo, signore, che dentro questa bottiglia abbiano lasciato cadere alcune gocce del veleno dei bis cobra». «Nessun uomo potrebbe resistere?»

      «No, Altezza. Il veleno distillato dal bis è venti volte più СКАЧАТЬ