Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3. Джек Марс
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Название: Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

Автор: Джек Марс

Издательство: Lukeman Literary Management Ltd

Жанр: Триллеры

Серия:

isbn: 9781094305660

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СКАЧАТЬ Incombeva sempre più grande.

      L’altro aggiunse una frase. Doveva essere qualcosa di serio perché nessuno dei due rise. Le loro espressioni piatte non cambiarono. Probabilmente pensavano di fargli un favore, dandogli il colpo di grazia.

      A Big Dog il dolore non faceva paura. Non credeva nel paradiso o nell’inferno. Da giovane aveva pregato i suoi antenati, ma se anche erano stati là fuori, non avevano ritenuto opportuno rispondergli.

      Forse c’era una vita dopo la morte, e forse no.

      Lui preferiva godersi l’esistenza lì sulla terra. Il dottore della piattaforma avrebbe potuto rimetterlo in sesto. Se fosse arrivato l’elisoccorso avrebbe potuto portarlo al piccolo centro traumatologico a Deadhorse. Un elicottero Apache avrebbe potuto attaccare e sgominare quei tizi.

      Poteva succedere di tutto. Finché continuava a respirare era ancora in gioco. Alzò una mano insanguinata. Incredibile che potesse ancora muovere il braccio.

      “Aspetta,” chiese.

      Non voglio morire adesso.

      Big Dog. Per decenni, era stato così che lo avevano chiamato tutti. Per la sua ex moglie lui era Big Dog, e così anche per i suoi capi. Una volta il presidente della compagnia era stato lì in visita, gli aveva stretto la mano e lo aveva chiamato Big Dog. Grugnì ripensandoci. Il suo vero nome era Warren.

      Un piccolo lampo di luce e una fiammata parvero illuminare le fauci nere del fucile di fronte a lui. L’oscurità lo raggiunse e Big Dog non seppe mai se aveva davvero visto quella luce o se era stato tutto un sogno.

      CAPITOLO DUE

      9:45 p.m. Ora legale orientale

      La Situation Room

      La Casa Bianca

      Washington, DC

      “Signor Presidente, che cosa ne pensa?”

      Clement Dixon era troppo vecchio per quella roba. Ecco cosa ne pensava.

      Era seduto a capotavola e tutti gli occhi erano su di lui. Nel corso della sua lunga carriera in politica, aveva imparato a interpretare gli sguardi e le espressioni facciali. E la sua capacità di leggere i visi gli diceva che tutte quelle persone potenti avevano raggiunto la sua stessa conclusione. Il gentiluomo dai capelli bianchi che presiedeva a quella riunione di emergenza non era la persona giusta.

      Era troppo vecchio.

      Era stato un Freedom Rider, un attivista dei diritti civili, sin dal primissimo viaggio del gruppo nel maggio del 1961. Aveva rischiato la vita per promuovere l’abolizione della segregazione nel sud. Era stato uno dei giovani oratori nelle strade durante le rivolte della polizia a Chicago nell’agosto del 1968, e aveva preso candelotti di lacrimogeni in faccia. Aveva passato trentatré anni nella Camera dei Rappresentanti. La buona gente del Connecticut lo aveva eletto la prima volta nel 1972. Era stato Presidente della Camera due volte, una durante gli anni ’80, e poi di nuovo di recente.

      Poi, all’età di settantaquattro anni, si era ritrovato all’improvviso presidente degli Stati Uniti. Era un ruolo che non aveva mai voluto né in cui si era mai visto. No, non esattamente. Non era vero. Da giovane, quando ancora era adolescente e nei suoi vent’anni, si era immaginato presidente.

      Ma l’America che aveva sognato di governare non era quella attuale. Quell’America era un luogo diviso, invischiato in due conflitti all’estero pubblicamente riconosciuti, oltre che in una mezza dozzina di ‘operazioni segrete’ clandestine, tanto segrete che a quanto pareva persino le persone al loro comando esitavano a discuterne con i superiori.

      “Signor presidente?”

      Da giovane, non si era mai immaginato presidente di un’America ancora completamente dipendente dai combustibili fossili per il proprio fabbisogno energetico, in cui il venti percento della popolazione viveva nella povertà e un altro trenta percento ci andava pericolosamente vicino. Un’America dove milioni di bambini soffrivano la fame ogni giorno, e più di un milione di persone non aveva un posto in cui dormire. Un luogo dove il razzismo continuava a prosperare. Dove milioni di cittadini non potevano permettersi di ammalarsi, e spesso dovevano scegliere tra comprare un farmaco o il cibo. Non era quella l’America che aveva sognato di governare.

      Quella era una sua versione da incubo, e tutto a un tratto lui ne era diventato il responsabile. Aveva passato tutta la vita a lottare per ciò che aveva creduto giusto, a combattere per i più alti ideali, ora si ritrovava invischiato nella melma. Quel lavoro comportava solo compromessi e sfumature di grigio, e Clement Dixon c’era finito in mezzo.

      Era sempre stato un uomo credente. Di quei tempi si era ritrovato a pensare a come Gesù avesse chiesto a Dio di allontanare da lui il calice. Ma a differenza Sua, il destino di Dixon non era mai di finire sulla croce. C’era finito in seguito a una lunga catena di contrattempi e pessime decisioni.

      Se il presidente David Barrett, un buon uomo che Dixon aveva conosciuto per anni, non fosse stato assassinato, nessuno avrebbe pensato di eleggere al suo posto il vice presidente Mark Baylor.

      E se Baylor non fosse stato implicato da una montagna di prove circostanziali nell’omicidio di Barrett (non tante da incriminarlo, ma più che abbastanza per disonorarlo e costringerlo a ritirarsi a vita privata), non si sarebbe dimesso, lasciando la presidenza in mano al presidente della Camera dei Rappresentanti.

      E se il mese prima Dixon non avesse accettato di rimanere alla Camera per un altro mandato, nonostante la sua età avanzata…

      Allora non si sarebbe ritrovato in quella posizione.

      Se solo avesse avuto la forza di volontà per rifiutare tutta quella faccenda… Solo perché la linea di successione prevedeva che il presidente della Camera si assumesse il compito, non significava che fosse costretto ad accettarlo. Ma moltissime persone avevano lottato a lungo perché Clement Dixon, portabandiera dei classici ideali liberali, diventasse presidente. Non aveva potuto voltar loro le spalle.

      Quindi eccolo lì, stanco, vecchio e claudicante nei corridoi dell’Ala Ovest (sì, claudicante: l’attuale Presidente degli Stati Uniti soffriva di artrite a un ginocchio e aveva una pronunciata zoppia), sopraffatto dal peso dell’incarico che gli era stato affidato. Ogni momento che passava comprometteva sempre di più i suoi ideali.

      “Signor presidente? Signore?”

      Il presidente Dixon era seduto nella Situation Room. Per qualche motivo, quella sala di forma ovale gli ricordava una serie televisiva degli anni ’60, una trasmissione intitolata Space: 1999. Era la visione ridicola del futuro di un produttore di Hollywood. Severa, vuota, inumana, e progettata per massimizzare gli spazi. Era elegante e sterile, e non emanava alcun fascino.

      Grandi monitor erano incassati nelle pareti, con un enorme schermo all’estremità del tavolo oblungo. Le sedie erano alte poltrone di pelle simile a quella su cui si sarebbe seduto il capitano di una nave spaziale.

      Quella riunione era stata convocata con pochissimo preavviso. Come al solito, era in corso una crisi. Escludendo le sedie attorno al tavolo, tutte occupate, e qualche posto vicino alle pareti, la stanza era quasi vuota. C’erano i soliti sospetti: alcuni uomini in sovrappeso in giacca e cravatta, e diversi militari in uniforme snelli e dritti come un fuso.

      Era presente anche Thomas Hayes, СКАЧАТЬ