Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4. Giannone Pietro
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СКАЧАТЬ le Pandette in Amalfi, erano rimaste come per tradizione presso i nostri provinciali; poichè insino a questi tempi, se bene nell'altre città d'Italia, come che pubblicamente insegnate nelle loro Accademie, cominciassero ad allegarsi nel Foro; nulladimanco in queste nostre parti, non essendovi ancora pubbliche Scuole introdotte, se non a' tempi di Federico II, non solo non aveano acquistata autorità alcuna di legge, nè s'allegavano nel Foro, ma nè meno erano insegnate ed esposte come in Bologna e Milano e nell'altre città d'Italia: e le liti per lo più decidevansi secondo le leggi longobarde, siccome è chiaro da quelle due sentenze rammentate da noi, e rapportate dal Pellegrino, una in tempo di Ruggiero, l'altra di Guglielmo II. Ed è ciò così vero, che non era lecito nè meno ricorrere alle leggi delle Pandette in difetto delle longobarde; come è chiaro da Commentari del medesimo Carlo di Tocco[52], ove dimandando se, siccome il figliuolo succedeva alla madre, così potesse ancor la madre succedere a' figliuoli: dice che le leggi longobarde di ciò niente stabilirono, onde la madre come cognata dovrebbe escludersi, poichè secondo quelle succedono i soli agnati; e che perciò vi sarebbe bisogno d'una nuova legge, che l'ammettesse alla loro successione, non altramente di quello praticavasi presso i Romani, appo i quali perchè la madre potesse succedere, fu mestier che il Senatusconsulto Orficiano lo stabilisse. Che bisogno dunque vi sarebbe stato di questa nuova legge, se s'avesse alla legge de' Longobardi potuto supplire colle leggi delle Pandette? Ne' tempi dunque di questo Guglielmo le leggi comuni de' Romani non eran quelle, ch'eran comprese nelle Pandette, ma quelle, ch'erano rimaste presso i Popoli, che dopo estinto l'Imperio romano, le ritennero più tosto come antiche costumanze, che per leggi scritte, non essendo stati i libri di Giustiniano in queste parti, se non dopo molti secoli conosciuti, e molto tardi riacquistarono in esse l'antica loro autorità e vigore, per l'uso più, che per qualche Costituzione di Principe, che lo comandasse, come si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

      La nona Costituzione di Guglielmo, che si legge sotto lo stesso titolo, tutta si raggira intorno all'incumbenza de' Maestri Camerari e de' Baglivi. Si prescrive il numero de' Baglivi e de' Giudici in ciascuna città e luogo delle province; e s'impone a' Camerari di non rendere venali questi Uffici, ma di distribuirgli a persone meritevoli e fedeli: che invigilino sopra i medesimi con vedere i loro processi; e dà altre providenze attinenti alla retta amministrazione della giustizia, ed al buon governo delle province.

      La decima, che abbiamo sotto il titolo de quaestionibus inter Fiscum, et privatum, prescrive a' Maestri Camerari che eccettuatene le cause feudali, abbiano a conoscere di tutti i giudicj, così reali, come personali tra il Fisco ed i privati, colli Giustizieri aggiunti, e coll'intervento dell'Avvocato fiscale.

      L'undecima, sotto il titolo de cognitione causae coram Bajulis, dà facoltà a' Baglivi di poter conoscere ne' luoghi dove sono preposti, di tutte le cause civili così reali, come personali, eccettuatene le cause feudali: di conoscere ancora de' furti minimi e d'altri minori delitti, che non portano pena di mutilazion di membra. La duodecima che si legge sotto il titolo de fure capto per Bajulum, prescrive a' Baglivi, che prendendo qualche ladro forastiero, l'abbiano insieme colla roba rubata a consignar in mano de' Giustizieri: se sarà del luogo, ove sono preposti, parimente lo debbiano consegnare a' Giustizieri, ma le robe mobili del medesimo dovranno essi applicarle al Fisco di quel luogo.

      La decimaterza, sotto il titolo de Officio Bajulorum impone a' Baglivi di dover invigilare intorno al giusto prezzo delle cose venali; e la loro incumbenza particolare essere, d'esigere irremissibilmente le pene a quei che venderanno contro l'assise, o pure se troveranno mancanti i loro pesi e misure. La decimaquarta, che segue sotto il titolo de Poena negantis depositum vel mutuum, punisce severamente i depositari, e que' che o per mutuo, o per comodato negheranno a' padroni di restituire la loro roba.

      La decimaquinta, che si legge sotto il titolo de Clericis conveniendis pro possessionibus, quas non tenent ab Ecclesia, merita maggior riflessione che tutte l'altre. In essa si determina, che se i Cherici saranno convenuti per qualche eredità, tenimento, o altra roba di lor patrimonio, che non dalla Chiesa, ma da altri sia ad essi pervenuto: la cognizione di queste cause spetti alla Corte secolare del luogo, nel distretto del quale sono le lor possessioni, e quivi dovranno essi rispondere in giudizio, se avran cosa in contrario: proibendosi solamente a' Giudici secolari di poter prendere le loro persone, ovvero carcerarle: ma non già eseguire in vigor della sentenza, che la lor Corte proferirà, le robe dedotte in giudicio. Questa legge di Guglielmo nel tempo, che fu promulgata, non parve niente irregolare e strana, siccome ancora da poi nei tempi di Marino di Caramanico antico Glossatore di queste Costituzioni, che glossandola, niente trovò che riprendere. Ma ne' secoli posteriori, quando il diritto canonico de' decretali cominciò a stabilire nelle menti de' nostri Giureconsulti altre massime, parve assai strana e mostruosa. Andrea d'Isernia, che scrisse in questi tempi, non ebbe per ciò difficoltà di dire che tal Costituzione niente valesse, anzi dovesse reputarsi nulla e vana, come quella ch'è contro le persone ecclesiastiche, e contro l'ecclesiastica libertà. Aggiugne ancora essersi ingannato il Legislatore, che vuol che si dovesse attendere la qualità o condizione delle robe, non delle persone, quando tutto il contrario, le robe prendono qualità dalle persone, e queste sono convenute, non quelle. Chiama eziandio imperiti coloro, che dicono aver il Papa e la Chiesa romana approvate queste Costituzioni; poichè dice non apparirne la conferma, e se pure apparisse generalmente fatta, non perciò si dee aver per approvata questa Costituzione dal Papa, il quale se fosse stato richiesto di particolarmente confermarla, non l'avrebbe conceduto. Ma da quanto si è detto ne' precedenti libri, quando della politia ecclesiastica ci toccò favellare, ben si potrà comprendere, quanta poca verità contenga questo discorso d'Isernia.

      La decimasesta, ch'è l'ultima di questo Principe, collocata da Pietro delle Vigne nel libro primo delle Costituzioni del Regno sotto il titolo de Officio Castellanorum, non contiene altro, se non che si comanda a' Castellani ed altri loro subalterni, che niente esigano da' carcerati, che non pernotteranno nelle carceri; ma se arriveranno a pernottarvi, nel tempo della lor liberazione non esigano più che un mezzo tarino.

      Nel libro secondo non abbiamo leggi del Re Guglielmo, ma nel terzo la decimasettima, che prima si incontra, è quella sotto il titolo de Dotariis constituendis, ove s'impone alle mogli, dopo la morte dei loro mariti, di dovere assicurare gli eredi di quello del dotario, che tengono nella Baronia, e prestar giuramento di fedeltà a colui, che sarà rimasto padrone della medesima.

      La decimaottava, che abbiamo sotto il titolo de Fratribus obligantibus partem feudi pro dotibus sororum, permette a' fratelli, se non avranno mobili, o altri beni ereditarj, di poter costituire in dote alle loro sorelle, e obbligare perciò parte del Feudo; e di vantaggio, se avranno tre o più Feudi, che possano uno d'essi darne in dote alle medesime: ma che in tutti i casi suddetti, e quando s'obbliga il Feudo, e quando s'aliena, o si costituisce in dote, sempre s'abbia da ricercare la licenza del Re. E di vantaggio, che i matrimoni non possan contraersi senza suo permesso ed assenso, ed altrimenti facendosi, tutte le convenzioni siano nulle, e invalide: ciocchè, come si disse, diede motivo a' Baroni del Regno di doglianza, che per queste leggi, per le quali senza licenza della sua Corte non potevano collocar in matrimonio le lor figliuole o sorelle si era loro imposto duro giogo; ma Federico, ciò non ostante, volle confermarla per quelle ragioni, che si sono dette, quando delle leggi di Ruggiero parlossi; poichè la legge non era gravosa per quello, che ordinava, ma per lo mal uso, che d'essa Guglielmo faceva, il quale per avidità, che i Feudi ritornassero al Fisco, era inflessibile a dar il suo permesso nei matrimoni, onde si mossero quelle querele de' Baroni e quei disordini, che nel Regno di questo Principe si sono raccontati.

      Merita la decimanona legge di Guglielmo, posta sotto il titolo de Adjutoriis exigendis ab hominibus, tutta la considerazione; poichè in essa più cose degne da notarsi s'incontrano. Primieramente si raffrena l'avidità de' Prelati delle Chiese, de' Conti, de' Baroni, e degli altri Feudatari, i quali per qualunque occasione estorqueano da' lori vassalli esorbitanti adjutorj; onde volendo togliergli da questa oppressione, stabilisce i casi ne' quali possano i medesimi giustamente pretendergli. I casi sono: I Se si trattasse di redimere la persona de' loro padroni dalle mani de' nemici, da' quali fossero stati presi militando sotto le insegne del Re. II Se СКАЧАТЬ



<p>52</p>

. Carol. de Tocco in l. si sorores 25 verb. si propinqui in fin. de succes. l. 2 tit. 14.