Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867. Ferrari Pio Vittorio
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СКАЧАТЬ pronti perchè alla sera il Comitato ci avrebbe tolti dall'albergo e trasportati in una casa privata.

      Regolammo i nostri conti con l'Hôtel Minerva e alla sera attendevamo i signori del Comitato.

      IV.

      Casa Giovanelli

      Il cosidetto Comitato nazionale romano fu, a dir vero, tutt'altro che benemerito dell'impresa da noi tentata, anzi l'osteggiò a tutto potere, perchè non si agiva d'accordo col governo di re Vittorio.

      Chi aiutò realmente il Cucchi, il Castellazzo, il Guerzoni, l'Adamoli, il Pavesi e gli altri capi convenuti qui in Roma, fu il Comitato o Centro d'insurrezione; ed era esso appunto che in quella sera si occupava di noi.

      Alle 8 pomeridiane fu bussato alla porta della nostra camera all'albergo.

      – Chi è? Avanti!

      Entrarono un signore alto e robusto dalla fisionomia franca ed aperta ed un giovanotto bruno, dagli occhi nerissimi e dai lineamenti delicati e simpatici.

      Il primo era Napoleone Parboni, che della fisionomia e della figura nulla ha per anco mutato. L'altro era un certo Augusto, il cui cognome ora mi sfugge e del quale poscia non mi fu possibile aver più traccia.

      Riconosciutici scambievolmente, fu convenuto che saremmo partiti con Augusto, il quale ci avrebbe condotti in vettura fino a Santa Maria Maggiore, donde, licenziato il cocchiere, saremmo andati a piedi alla nostra destinazione.

      E così fu fatto.

      Nessun inconveniente, nessun contrattempo nella partenza. All'uscir dall'albergo si pagò il solito pedaggio, e poi via. Per strada incontrammo il carro dei morti ed io ne trassi cattivo augurio.

      Poco discosto dalla piazza dell'Esquilino, in via Graziosa (ora via Cavour), esisteva allora a mano diritta una gradinata che metteva ad un terrapieno, donde poi si accedeva al vicolo dei Quattro Cantoni. Appena imboccato questo, a mano diritta, c'era un vicolo cieco, una specie di cortiletto. In una casa prospettante in questo vicolo ci condusse l'amico Augusto e vi fummo ricevuti con molta cordialità.

      I moderni lavori hanno mutato faccia del tutto a quella località, talchè chi si trovi nella bella e maestosa via Cavour mal cercherebbe i meandri e gli angiporti di via Graziosa.

      Il vicolo Quattro Cantoni però esiste tuttora e vi si accede per una comoda scalea, salita la quale, subito a mano diritta si imbocca il vicolo cieco. Questo è tuttora immutato e la casa ove noi abitammo, per chi la volesse conoscere, porta ora il num. 72-B ed è alloggio consueto di ciociari e di erbivendoli.

      Stranezza del caso! Vent'anni dopo i fatti che sto narrando, io venni a stabilirmi colla famiglia in Roma. Gira e rigira per trovar quartiere, dopo averne visitati parecchi, finalmente ne trovai uno di mio gradimento in via Cavour; vi ci stabilimmo e solo dopo due e tre mesi che vi abitavo, riconobbi che le mie finestre prospettavano proprio sul vicolo Quattro Cantoni e che il vicolo cieco era quasi di fronte a casa mia!

      L'uomo che dovea ospitarci, era un certo Giovanelli calzolaio, o meglio ciabattino, morto pur esso alcuni anni or sono. Pochi mesi prima di morire venne a trovarmi. Di salute stava ottimamente, benchè avesse ottant'anni, ma la vista l'avea quasi perduta.

      Il suo nome per me e per i miei compagni di quei giorni assurse all'onore di ricordo incancellabile. Aveva famiglia composta di una donna, due ragazze ed un figlio. Una delle ragazze era sposa ed il fidanzato veniva ogni sera a vederla. Era un altro Augusto, compositore tipografo, buonissimo figliuolo e da cui nulla c'era a temere.

      Licenziato l'Augusto primo (diremo così), rimanemmo soli a contemplare l'abitazione in cui d'ordine del Comitato eravamo stati sbalestrati.

      Era un secondo piano. L'uscio della scala metteva direttamente in uno stanzone, il talamo coniugale del Giovanelli: dallo stanzone si passava in una piccola cucina e dalla cucina in un'altra piccola stanza, che noi destinammo per sala da pranzo.

      Poco dopo arrivati noi due, ci vennero anche l'Andreuzzi con un altro amico e l'indomani ci furono portati pure i due commessi viaggiatori di casa A e di casa B. Totale sei ospiti e cinque padroni di casa, ossia undici persone costrette a stiparsi in due stanze, ed ecco come.

      Quattro si dormiva per turno nel gran talamo del Giovanelli. Si doveva giacere di fianco e star immobili, pena il ruzzolare in terra… nè giurerei che ciò non sia avvenuto. Si stava pigiati, ma via, meno male! Da uno degli altri letti veniva levato un materasso che ogni sera si stendeva per terra, e così era provveduto per altri due che ci dormivano per turno. Letto un po' duro, ma senza pericolo di ruzzoloni. Il Giovanelli ed il figlio dormivano pure con noi sovra un cassettone che coperto da un materasso poteva anche figurare un divano. In totale quindi otto persone in una camera che non credo misurasse sessanta metri cubi.

      Come spazio, stavano meglio certamente di noi la madre e le figlie, le quali dormivano nell'altra stanzetta, ma non so in qual modo, perchè quando noi al mattino si usciva, la camera era rifatta ed assettata, di letti non si vedeva manco l'ombra ed il cubicolo era convertito in triclinio.

      Questo fu il nostro alloggio per circa una quindicina di giorni; giorni memorabili, giorni il cui ricordo appare come pietra miliare nella vita monotona ed affacendata della più tarda età, giorni di spensierata allegria, d'incondizionata abnegazione, giorni sereni e giocondi in cui l'ardore e la fantasia giovanile si sposavano in un comune e nobile intento, si acquetavano in una solenne certezza, la coscienza cioè di tentare il supremo compimento dei destini italiani, la realizzazione del voto di patrioti, di eroi, di martiri!

      Casa Giovanelli per noi doveva essere poco meno d'un carcere per quei pochi giorni. Non si doveva uscire o quanto meno nelle ore di notte e non mai per andare verso il centro della città. L'occhio vigile della polizia ci avrebbe notati, pedinati ed il covo sarebbe ben presto stato scoperto.

      Costretto da questa invasione a sospendere il proprio lavoro e danneggiato negli affari suoi, il buon Giovanelli dovette fare di necessità virtù e di calzolaio fu tramutato ipso facto in cuoco, nella qual briga lo coadiuvavano pure la moglie e le figlie. Faceva le provviste, ci portava i sigari, il tabacco e, più che tutto, ci portava certi fiasconi giganti di vino bianco, coi quali confortavamo gli ozii della prigionia forzata.

      Gli amici passavano il loro tempo giuocando alle carte. Io, non conoscendo giuochi, faute de mieux, facevo filacce per i futuri feriti, lo stesso lavoro a cui erano condannati i prigionieri di Spielberg e di Gradisca.

      L'indomani del nostro arrivo il Giovanelli ci fece conoscere parecchi suoi amici, tutti cospiratori, congiurati, liberali accaniti (diceva presentandoceli) e ce n'era uno sciame. E fatta la nostra conoscenza, venivano poi quotidianamente a tenerci compagnia e a fare conversazione.

      Società piacevolissima! Ricordo un Serafino falegname, buon ragazzo, che aveva fatta la campagna del 1866; un carrettiere in camiciotto di tela greggia con una faccia che, Dio liberi, imbroccarla al buio (lo chiamavano frittata, non so poi perchè); un vecchietto dai panni logori ma accanito anche lui; una donna accanita nelle vesti, nelle unghie e nei capelli arruffati; un cocchiere a spasso, proveniente da un circo di cavallerizzi; un marmista, un carbonaio ed altri molti.

      Ma erano strette di mano, toccate di bicchiere, abbracci, promesse, giuramenti che ci si facevano! E perchè alla scelta società non mancasse anche la buona musica, il figlio del Giovanelli, Pietruccio, di tratto in tratto dava una cantatina con una terribile voce di tenore, accompagnandosi con la chitarra.

      Gran parte di questi amici io li rividi per mia somma consolazione nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia e si rinnovarono allora gli abbracciamenti, i baci e le carezze. E poichè il caso voleva che in quel tempo io mi trovassi СКАЧАТЬ