Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867. Ferrari Pio Vittorio
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СКАЧАТЬ cosa n'aveva inteso anche la mia buona mamma e però forse divinava. In casa seguiva ogni mio passo e quando quella sera picchiò alla mia stanza, dove m'ero rinchiuso per comporre un po' di biancheria entro una piccola sacca, dovetti nascondere sacca e biancheria sotto il letto per non darmi a conoscere.

      Voleva che l'accompagnassi presso certi nostri parenti. Le dissi che non potevo perchè dovevo fare una visita di dovere in casa X… E così dopo desinare io andai a vestirmi in abito nero da società con guanti e gibus ed essa venne a vedere di persona se l'abbigliamento era all'ordine e mi stava bene.

      – Mi raccomando, sai? mostrati garbato e riverisci da parte mia.

      – Sì, mamma. – Le diedi un bacio ed uscii in gran fretta. Mi veniva da piangere.

      Forse quel bacio potea essere l'ultimo ed ella non lo sapeva. In ogni modo l'indomani avrebbe provato un grande dolore.

      Ad alleviarlo, le diressi, poco prima di partire, un bigliettino e lo impostai alla stazione.

      Le chiedevo scusa d'averla in tal modo ingannata: partivo per un affare di premura e la pregavo di non fare di me ricerca alcuna perchè a suo tempo le avrei fatto avere mie nuove.

      II.

      In viaggio

      All'albergo della Luna a Firenze, dove prendemmo stanza, ci attendevano parecchi amici partiti prima di noi. Primeggiava fra essi e fungeva da capo Francesco Tolazzi, valoroso soldato, che poi, fino a pochi anni or sono, fu modesto impiegato: ora pur troppo è morto. Nel 1864 era stato intrepido capitano di una piccola banda di insorti friulani i quali, battendosi a Monte Castello, avevano dalle alte vette delle Alpi Carniche messo in iscompiglio ed in moto un intero corpo d'armata austriaco che aveva alla testa il generalissimo Benedek, appositamente chiamato a tal comando. L'intera provincia del Friuli era stata posta in istato d'assedio. La mobilitazione di quel corpo costò all'Austria la bellezza di quasi due milioni di lire, mentre la banda dei volontari non raggiungeva forse i venti uomini!

      Parte di costoro erano stati imprigionati, parte ne vidi io stesso rimessi in libertà nel 1866, altri riuscirono a fuggire e ripararonsi nel Regno.

      Fra questi il Tolazzi, il Cella ed il venerando Andreuzzi. Quest'ultimo stette ben 17 giorni sotto un crepaccio di montagna mantenendosi a polenta e latte, che gli recava un pastore, e tenendosi la stricnina in tasca, pronto al suicidio piuttosto che cadere in mano al nemico!

      Belle memorie!

      Quando io ed il Muratti arrivammo, gli amici che ci avevano preceduto si preparavano a proseguire il loro viaggio. Avevano tutti portata seco una rivoltella e fu non piccola difficoltà l'adattarsela in modo che non fosse veduta; la scoperta di una compagnia di giovinotti armati a quel modo avrebbe potuto procurarci seri guai anche colla polizia italiana.

      Essi dovevan passare il confine per Orte e Corese; noi insieme a qualche altro amico lo avremmo passato l'indomani dalla parte di Montalto e Civitavecchia.

      Partirono dunque assieme gli amici Marzuttini, Berghinz, Andreuzzi juniore, Facci, Cella e Povoleri.

      La giovialità serena ed esilarante di quest'ultimo teneva allegra la compagnia. Chi l'avrebbe detto allora! Il Povoleri finì suicida in Alicante pochi anni dopo, ed egual fine si ebbe pure più tardi il povero Cella; egli che aveva sfidato tante volte la morte, che al ponte del Caffaro aveva sostenuto con un capitano austriaco, un duello corpo a corpo da non aver riscontro che nelle epopee antiche1; egli che fu il primo ferito di quella guerra e meritò l'onore di essere chiamato da Garibaldi: prode fra i prodi!

      E morto è pure il povero Carletto Facci, anima gentile e dolcissima di intelligente amico! Il Berghinz e l'Andreuzzi da parecchi anni portarono nella libera America l'onesta loro attività e forse non li vedremo più: tutti scomparsi!

      L'indomani partimmo anche noi venuti dopo ed a noi si unì pure l'amico Alberto Ceresa di Lodi.

      Eravamo in quattro ed anche di noi quattro uno pur troppo or non vive più che nella dolce memoria!

      Il Comitato residente in Firenze ci aveva designati gli alberghi dove in Roma dovevamo prendere alloggio. Così alcuni furono mandati all'Hôtel Roma, altri all'Europa, altri all'albergo Cesari; il Muratti ed io fummo destinati alla Minerva, noto sbarcatoio, allora come ora, di tutti i gros-bonnets del legittimismo.

      Prima di partire dovemmo far legalizzare i nostri passaporti dal console spagnolo che abitava fuori di Porta al Prato, ed anche questa pratica ritardò la nostra partenza di qualche ora. Curiosa contraddizione! Pio IX avea tanta fiducia nella Francia che si faceva difendere dalle sue truppe, ma per i passaporti esigeva il timbro della Spagna!

      Sostammo a Livorno la notte per riprendere di buon mattino il treno maremmano. I carabinieri alla stazione non ci diedero noia. A noi però sembrava ci tenessero d'occhio e non respirammo liberamente che quando il treno si mosse.

      A Montalto visita doganale. Un ricevitore sfogliò due o tre volte una Guida d'Italia che gli si affacciò nell'aprire la mia sacca, poi mi diè una sbirciata di sottecchi. Forse volea scrutare nel mio volto un possibile lettore di libri proibiti.

      Da Follonica in giù eravamo rimasti in coupé noi quattro con altri due giovinotti che non conoscevamo. Costoro, forse indovinando o fidando nella lealtà della gioventù che non tradisce, cavarono di tasca prima d'arrivare a Montalto due rivoltelle e cominciarono a consultarsi fra loro sul modo di poterle nascondere prima di arrivare al confine.

      Vedendo quelle armi, immaginammo che il loro viaggio avesse l'identico scopo del nostro. Lo chiedemmo e ce lo confermarono. Allora suggerimmo loro di nascondere le rivoltelle nell'imbottitura dei sedili cavando un poco di stoppa: così fu fatto; e poi che ebbero subìta la visita doganale e ripresi i loro posti, ricuperarono senza inconvenienti le loro armi.

      Erano due bravi giovinotti: li lasciammo alla stazione di Roma e non li rividi più. Ricordo però il nome di uno, Natale Capaccioli, nome che rividi più tardi nella funebre lista dei morti a Mentana.

      Apparteneva al glorioso battaglione livornese guidato dal Mayer2.

      Il sole era già calato in un ampio manto di nuvole d'oro: cominciava ad imbrunire.

      Il treno correva monotono attraversando le desolate ed interminabili lande della campagna romana; la conversazione nostra era andata gradatamente languendo: il crepuscolo stesso invitava al silenzio.

      Un senso indistinto di brivido m'aveva preso.

      La certezza di trovarmi in paese nemico; la possibilità di essere pedinati dalla polizia, scoperti e gettati in un carcere senza nemmeno il merito d'aver mosso una paglia; l'impresa non ben determinata che ci attendeva in Roma; il ricordo della famiglia lasciata la quale forse in quel momento era in tutte le angosce non sapendo dove e come fare di me ricerca; ciò tutt'assieme dava ai miei pensieri una tristezza meditabonda alla quale invitava anche la stessa ora tarda della sera ed il paesaggio che ci si svolgeva innanzi agli occhi, malinconico e desolante.

      Si attraversavano immense praterie che andavano a confondersi a perdita d'occhio col lontano orizzonte, colline e vallate alternantisi per interminabili pendii, ma spoglie affatto d'ogni vegetazione e solo popolate qua e là da mandrie di pecore, di bufali e di cavalli. Non un arbusto, non un boschetto, non una casa! Il treno correva correva… passata Civitavecchia, passato anche Palo, ultima fermata del diretto, e via via Palidoro, Maccarese, Magliana e finalmente Roma!

      Roma, termine dei nostri СКАЧАТЬ



<p>1</p>

«Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu che certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella friulano; entrambi valorosi davvero e l'uno competente all'altro; però o la maggior perizia o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, il fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a rendere: finchè durò questo duello cessarono di tirare da una parte e dall'altra, e il vincitore con parole blande consolò il vinto, chè a questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la virtù gli frutti lode e non biasimo». Guerrazzi, Il secolo che muore, cap. X. – Posso aggiungere che i due feriti furono trasportati a Salò e curati in uno stesso ospedale, divennero poscia amici.

<p>2</p>

I sessanta carabinieri livornesi, la vecchia guardia della giornata, lasciarono circa la metà di loro sul terreno. Fra questi dodici morti, dei quali troviamo in un album pietoso registrati i nomi, che ci par sacro ripetere: Bertagni Vincenzo, Boni Egidio, Caillon Gustavo, Capaccioli Natale, Cipriani Ubaldo, Costa Pietro, Franceschi Francesco, Grotta Giovanni, Lircan Bellini, Giuliani Francesco, Paci Silvestro.