Il perduto amore. Fracchia Umberto
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Название: Il perduto amore

Автор: Fracchia Umberto

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ creatura! Il suo corpo aveva quindici anni: era infantile, ancora magro; magre le gambe che dal ginocchio in giù uscivano dal gonnellino fatto di tutte piccole pieghe; magre le braccia, nude dalla spalla, alla cui estremità pesavano due grosse mani arrossate, che parevano prese in prestito a qualche gran donna e attaccate con un grosso chiodo ai suoi polsi. E il suo viso era invece senza età, e somigliava a quello di Daria come la copia mal riuscita d'un'opera d'arte, esatta in ogni sua parte, sbagliata nel suo insieme. I suoi occhi erano tutto bianco, appena adombrati da rade ciglia, e parevano sempre dilatati in uno stato ipnotico. L'ovale del volto terminava in un mento aguzzo, che cominciava quasi sotto le orecchie, ed era tagliato a metà da una bocca carnosa e sanguigna, inutilmente arrotondata da due piccoli punti di rossetto. Solo i capelli, che in lunghi riccioli le rotolavano sulle spalle, erano gli stessi capelli di Daria, neri e azzurri, e pesanti come il ferro.

      – Ah! io capisco tutto! – esclamò dopo un breve silenzio, guardando fissamente i rami del salice che ci piovevano sul capo. – Perchè non dovrei capire? Perchè sembro ancora una bambina? Ma non sono più una bambina… È un pezzo che non lo sono più… I vecchi le capiscono queste cose! Quel signore che venne a trovarci sabato scorso, credo che sia un senatore, un conte, che ha quelle belle basette arricciate (lo avrai incontrato mille volte) ah! ah! mi dette subito ragione. E mica solo con me! Anche a Daria lo disse: – Lascia andare, amica mia… Soave non è più tanto bambina… – Ma voi giovani queste cose non le volete capire. Ebbene io so tutto, come te, e come Daria… Tutto, tutto…

      – Ma io, veramente, – dissi impacciato, – io non so niente…

      – Povero piccolo! – esclamò la signorina Soave. – E allora io ti posso insegnare… È da ieri che sto con l'orecchio attaccato agli usci! È da ieri che Kate mi racconta tutte le storie che sa, da quando è nata… Ma si ostinano tutti a tirarmi per le trecce e a guardarmi ridendo le sottane corte! Piacerebbe anche a me avere la coda lunga un metro, e le scarpine di raso d'oro, e un bel diadema con un paradiso in testa… E che cosa sono questi cappelloni di paglia con le ciliege che mi fanno portare?

      Con un gesto sgraziato si strappò di testa il grande cappello di paglia di Firenze, tutto coronato di ciliege rosse, e lo gualcì, lo pestò con i pugni chiusi, e me lo riaprì sotto il naso. Poi mi si buttò con tutto il suo peso contro la spalla e guardandomi sorridente mi confidò:

      – Vuoi sapere come mi piacerebbe un cappellino? Come quello che ho veduto ieri in una vetrina del Corso… Era di paglia blu rossa e nera, lucida lucida tutta arricciata, tutta tutta arricciata la tesa, e poi un nastro di seta scozzese con un gran fiocco da un lato, e la cupola invece liscia e intrecciata, che faceva un disegno di tanti piccoli quadrati neri rossi e blu. E di sotto al fiocco usciva un uccellino piccino ma con una coda lunga e sottile, terminata da piccole pagliuzze d'argento che sembravano goccioline di rugiada. Quella era una bella cuffietta! Coi capelli neri, i colori vivaci mi stanno che è un amore.

      – E perchè non dice a Daria che le regali questo cappello?

      – Ah! – sospirò. – Se io dovrò aspettare Daria non ne avrò mai di cappelli come quello!

      Rimase silenziosa qualche minuto, giocò con i riccioli, poi domandò:

      – Quanto immagini che possa costare? Chissà che somma esagerata pensi tu…

      Io scossi il capo ed ella soggiunse:

      – Venticinque lire…

      Mi guardò come aspettando da me qualche gran segno di stupore. Poi disse malinconica:

      – A tutti piace Daria. Eppure è molto sciupata… Anche a te piace molto?

      – Molto? Non so… – risposi.

      Poi domandò ancora:

      – Quanti anni hai tu?

      – Vent'anni, – risposi.

      – E io ne ho quindici, quasi sedici…

      Ancora una volta mi guardò, ma quel suo sguardo non mi disse nulla. Mi ero già distratto e già ripensavo che la sera era prossima, e che avrei riveduto Daria fra poco, e forse quel nuovo incontro sarebbe stato decisivo. Forse avrei potuto rimanere solo un istante con lei, forse baciarle la mano, certamente stringergliela fugacemente, nell'ombra discreta o sotto la tovaglia. Ella avrebbe avuto al collo qualche gioiello maraviglioso e la sua gola mi sarebbe sembrata più candida e la sua bocca più rossa. E vidi senza allontanarmi dalla mia cara immagine la piccola irrequieta, la piccola ciarliera, Soave, alzarsi dal mio fianco, la sua testa ricciuta scomparire di nuovo sotto le grandi tese spioventi del cappello, e le sue grosse mani spianare in fretta in fretta le pieghe gualcite della sottana. A un tratto mi si buttò sulla bocca, mi dette un morso, e fuggì via gridando: – Arrivederci quando sarai sveglio!

      Ed io non capii allora che era un bacio.

      VIII

      Prima di andare da Clauss, passai da un mercante e comprai una cravatta, una bella cravatta azzurra con certe macchie d'oro che sembravano stelle in un cielo da presepio. Fra cento e più cravatte, io vidi quella, in fondo a una scatola e la riconobbi. Questo fortunato incontro mi rallegrò, e confortò le mie speranze che, allora, erano in fiore. Poi me ne andai a casa e lo specchio s'ebbe la mia immagine come non l'aveva avuta mai, e vide che le mie mani sapevano, all'occorrenza, fare miracoli. Agghindato, e con un profumino tenue tenue nei capelli, e con quella meravigliosa cravatta, passai l'uscio. Sull'uscio incontrai Sterpoli carico d'involti, con un gran mazzo di fiori in mano, che rincasava.

      – Ohè! – gli dissi. – Hai più veduto nessuno? Com'è finita? Bene o male?

      – Bene, – rispose; – ogni cosa per la sua strada.

      – Ma Daria? Che mi dici di lei?

      Egli levò su me uno sguardo sospettoso e brontolò:

      – Non scherzare. Non parlar così forte.

      Entrò in casa ed io me ne andai.

      Poco dopo noi eravamo, tutti e tre, seduti intorno a un piccolo tavolo, sulla veranda, avendo per unico lume la luna. L'aria era così azzurra, trasparente ed immota che ci pareva di essere immersi nella profondità di un lago; di vivere la beata vita dei pesci. Daria portava un abito verde e un nastro pure verde fra i capelli. Dinnanzi a noi fumavano delicate vivande: una moltitudine di gamberetti galleggiava in una salsa verde, fra ciuffi di erbe aromatiche. C'erano, sulla tavola, molti bicchieri, e due anfore di vino chiaro, e molte cose luccicanti. Le mani di Daria si posavano come farfalle, come farfalle, su quelle cose fragili.

      – Un po' di vino, – diceva di quando in quando. – Un grano di sale… Una presa di pepe… Un zinzino di pepe, poco, poco…

      Seduto di fronte a me, Carlo Clauss la serviva con gesti rapidi, chiedendo ogni momento:

      – Così? Ancora? Poco? Basta?

      Tre gigli candidi (noi tre!) stavano in un vaso, al centro, tre grandi e candidi gigli, in un vaso, candidi e immobili, d'un'immobilità rara nelle cose della natura. Daria spesso si curvava per odorarli.

      – Ecco ciò che basta alla nostra felicità, – diceva Clauss. – Non vi pare? Ah! se sapessimo accontentarci!

      – O gioia di vivere! – pensavo io, esaltandomi. Quella cravatta nuova (veramente splendida) mi dava un po' di noia intorno al collo e cercavo di dimenticarla.

      – Sì, СКАЧАТЬ