Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo
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Название: Mezzo secolo di patriotismo

Автор: Bonfadini Romualdo

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ Castiglioni a deputati presso le potenze alleate. E i due deputati, accettato, sebbene a malincuore, l'incarico, e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie necessarie presso i governi europei, partirono infatti da Milano il giorno susseguente e si trovarono in Mantova la sera del 19.

      La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.

      I cospiratori del partito austriaco, visto che nel Senato il governo era ridotto ad una piccola minoranza, decisero di approfittare della circostanza per sollecitare quella rivolta di piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine pubblico.

      Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere il loro programma, rivolsero i loro sforzi contro il Senato stesso, considerandolo, nella loro cecità, come l'unico ostacolo al trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi ostili ad un terzo, una coalizione per distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono il loro appoggio e le loro firme ad una protesta che gli Italici presentavano, contro la deliberazione del Senato, per domandare l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, come unica legittima rappresentanza del Regno. Gli Italici dovettero tollerare, con trista e tacita complicità, l'agitazione popolare che il Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano con torbidi elementi chiamati dal Pavese e dal Novarese.

      La protesta in favore della convocazione dei Collegi Elettorali era imponente per la stessa moderazione con cui era redatta, pel numero e per la qualità delle firme ond'era accompagnata. Il primo nome sottoscritto era quello del generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri, i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani, i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani, i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni, i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco, i De-Capitani, i Balabbio, i Besana, i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale, conte Gian Luca Della Somaglia; vi erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali, Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola, Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.

      Questo documento parve atto così grave e così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri, uomo di animo retto e fermo, non indegno dei suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere, come depositario del supremo potere, misure di previdenza. Fu inutile; il duca di Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato dai rapporti di una polizia che s'era fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in cuor suo che ogni cosa precipitava e non v'erano più probabilità di salute, non volle far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse20.

      La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario delle riunioni del Senato; e, malgrado l'eccitazione popolare, che già si annunziava, il presidente Veneri non ebbe il coraggio di sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori s'avviavano nelle loro carrozze verso il palazzo dove solevano radunarsi.

      E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose cartelle degli Archivj di Stato, in quel cortile dove un imperatore di bronzo aspetta, colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in vita, che si risolva il quesito di giustizia storica e di libertà politica agitato intorno al suo nome, accadde la seguente scena. Quando le carrozze dei senatori si fermavano dinanzi al vestibolo, un uomo d'alta statura, domestico di una casa signorile, montava sopra uno sgabello, si accostava allo sportello e gettava alla folla il nome del senatore, dando egli stesso il segnale dei fischi o degli applausi, secondochè il personaggio appartenesse o no al partito vice-reale. La folla era variopinta: v'erano giovani delle primarie famiglie, con ombrelle di seta, v'erano lacchè, popolani, faccie truci come di sicarii assoldati, e perfino, asserisce il Coraccini, delle dame di Corte. Quando giunse la carrozza del conte Verri, fu accolta da applausi, voltisi poi in fischi nel salire lo scalone; e il senatore vide distintamente il conte Federico Confalonieri dare il segnale degli applausi. La folla cresceva ad ogni momento, e assumeva, come avviene, aspetto più minaccioso e propositi più torbidi dal maggior numero. Mentre il Senato, appena riunitosi, cominciava la lettura della protesta e delle firme, un capitano Marini fece annunciare che la Guardia Civica chiedeva di voler presidiare essa il Senato, invece dei soldati di linea. Era il primo procedimento metodico della rivoluzione. I senatori, già sgomentati di questi preliminari, non seppero neanche dare risposta. E il capitano Begnino Bossi, del partito italico, rimandando senza contrasto il picchetto di linea e i dragoni ch'erano di servizio, fece occupare dalla Guardia Civica il cortile e le scale. Voleva dire, e volle dire infatti, che la turba fosse padrona d'invadere le scale e i cortili con assai maggiore libertà di prima. Il romore della sommossa cominciò allora a penetrare nella sala senatoria, e il pallore degli uscieri avvertì del crescente pericolo. Il conte Carlo Verri, affidato alla notorietà del suo nome e della sua famiglia, si offrì di uscire e di arringare la turba. Lo fece infatti e più volte, man mano che si udiva ingrossare il tumulto. Ma ad ogni arringa sua, vedeva più inquieta e più cupa l'attitudine della folla, respinta più in alto la guardia, sempre più occupati dai tumultuanti gli accessi e le scale del palazzo. La terza volta che si presentò sul pianerottolo dello scalone, vide che ogni freno era spezzato; che l'invasione delle sale era imminente. Gli ufficiali della Guardia Civica gli si strinsero intorno, dicendosi pronti ad esporre la loro vita per salvarlo; egli, impotente a farsi udire frammezzo agli urli, agitò un fazzoletto bianco e visto poco lungi il conte Confalonieri, lo chiamò ad alta voce per nome, invitandolo ad esporre i lamenti e i desiderii dell'assembramento. Furono poche parole, ma chiare: che si convochino immediatamente i Collegi Elettorali e che si richiami la Deputazione del Senato. Poi, gli urli proruppero come prima e più di prima, e assunsero quel tono foriero delle imminenti violenze: abbasso il Vicerè! abbasso il Senato! che si sciolga la seduta!

      Il Confalonieri si pose a lato del Verri, quasi per fargli scudo della sua momentanea popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi della sala, tutto il Consiglio era scompigliato; i senatori, sbigottiti, non idonei per tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri confermò loro che, senza un'immediata adesione ai desiderii della folla, non si poteva guarentire la salvezza del Senato. Non v'era bisogno di più forti scongiuri. Un senatore stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente Veneri appose la firma; siccome la folla già batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero a scriverne copie, che poi venivano gettate e diffuse tra il popolo tumultuante.

      Questa risoluzione salvò probabilmente i senatori da un possibile eccidio; i capi della cospirazione riuscirono a calmare per un istante le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi, tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata. Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Appiani, fu bucato dalla punta di un ombrello e gettato sul lastrico della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi, stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto, rotto in frantumi, buttato dalla finestra.

      La prima parte della Rivoluzione era compiuta; il Senato era esautorato, sgominato, poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano gravi al partito italico s'erano superati. Ma restava l'altra metà del programma; quella che stava più a cuore del partito austriaco puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente e atrocemente compiuta.

      Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero in altra parte della città; sopra un'altra area, pure oggi immemore della tremenda tragedia, i cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno e di nobile nel consorzio umano, la religione, l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.

      La piazza di S. Fedele non aveva allora nè quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza che oggi le si riconosce. L'edificio in cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si protendeva allora assai più innanzi, СКАЧАТЬ



<p>20</p>

Per una inesattezza, che è, bisogna dirlo, affatto eccezionale nel diligente Cusani, questi asserisce nella sua storia che “sopraggiunti Veneri e Guicciardi, confermarono il racconto, insistendo sull'imminente pericolo del Prina.„ Ora questo può essere pel Veneri, ma pel Guicciardi certamente non è, giacchè il Guicciardi era partito col senatore Castiglioni, fin dal 18 per Mantova, dove giunsero il 19, e fu lì, e alla stessa presenza del principe Eugenio, ch'essi udirono i fatti occorsi a Milano, riferiti al principe dai fuggitivi ministri, Vaccari e Méjean.