Название: Mezzo secolo di patriotismo
Автор: Bonfadini Romualdo
Издательство: Public Domain
Жанр: Зарубежная классика
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Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese, Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito con zelo il governo da cui era stato beneficato. Caduto quello, ricuperava il sentimento della sua indipendenza politica, e credette scorgere nell'Austria, vale a dire nel più forte dei governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola potenza capace di guarentire i due scopi politici che gli erano cari: il mantenimento della Valtellina nel regime lombardo ed una libertà onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo, la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne intorno al suo nome fino agli ultimi tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono con troppa ingiustizia alcuni scrittori contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi, incontrò quella del Marescalchi; e irosamente ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese, e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere indulgente verso le debolezze dell'epoca.
In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie s'era nella vita pubblica ingrossate contro, aveva fra le pareti domestiche riputazione di animo buono e probo, cui sempre giustificarono legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto. La mobilità degli eventi, avendo educato tutta la generazione sua ad un certo scetticismo utilitario, – che ora torna di moda, – non gli permise di mostrare, nella sua vita pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col Foscolo, che in quella non si fosse proposto se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva il sentimento del paese, il concetto della vita politica. Non gli sacrificava con larga generosità le sue convenienze personali e famigliari, ma non può dirsi che abbia cercato queste a ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.
Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente dirsi un uomo moderno. Per l'educazione, per le tradizioni, per le necessità degli eventi contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli, dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano imparato l'evoluzione dei metodi come unico avviamento ai successi del bene. La saldezza delle convinzioni politiche, divenuta, sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini pubblici, non poteva sembrare qualità egregia di governo in tempi, in cui contro la prepotenza dei dominatori unico schermo era l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare quanto più si potesse delle vite e delle sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che uomini di rette intenzioni e di vita illibata serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti così incerti e così brusche mobilità, da eccitare la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza, naturale allo storico, per le incoerenze di cui ogni epoca è necessariamente feconda.
Il programma austriaco del Guicciardi poteva dunque essere, e fu, un errore; ma non era un traviamento.
Dell'Austria non s'aveva allora fra gli uomini di governo quel concetto che dopo il 1815 divenne popolare in Italia. Il Guicciardi non l'aveva conosciuta che come potenza estera, e gli uomini di parte sua in Milano ne ricordavano il mite regime teresiano e leopoldino come un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze repubblicane e imperiali piovuteci dalla Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto, e mancarono affatto, dell'esperienza politica, che s'acquista unicamente colla meditazione e colla lettura. Furono vittima di quella illusione, che seduce sempre le menti volgari, di credere che un partito o un governo, abbandonato ad un dato punto della vita, sia rimasto immobile e si possa riprendere e ripresentare colle stesse forme e cogli stessi caratteri, allo stesso punto in cui s'è lasciato.
Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo
che non vede, non sente, non istudia le modificazioni che intorno a lui e in sè stesso cagiona la forza delle cose o lo spirito dei tempi, non sa immaginare che si sia mutato o in bene o in male quel partito, quel governo, quel sistema che da un pezzo ha perduto di vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo, sulla base delle passate nozioni, inconscio dello squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza ed il vero; e quando poi la fortuna dei casi lo ripone in contatto con quella forma, desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge con sorpresa che quella forma è mutata, che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa evoluzione benefica o disastrosa da cui egli credeva che fosse rimasta lontana od immune.
Questo complesso di circostanze e di idee, unito probabilmente ad un senso di gelosia e ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi, unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione di scopi che distinguevano il partito degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi campione della resistenza contro il programma savio e patriottico esposto al Senato nella seduta del 17 aprile.
Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare non sarebbe forse inutile, ma sarebbe certamente assai lungo; nel complesso, la sua intonazione fu meschina e rivelava la pochezza dei valori intellettuali rimasti in quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni più volte ripetutisi nella storia, che, alla vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece di affrontare la discussione delle cose, si affronta quella delle apparenze; invece di trarre i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.
Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare che il Guardasigilli avesse facoltà di convocare straordinariamente il Senato; gli contestò il titolo di rappresentante dello Stato, mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo; propose, vecchio espediente d'ogni nuova contesa, la nomina di una Commissione per istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato segreto, per discutere subito l'affare e prendere una deliberazione, il Guicciardi si oppose di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico del 1809 non consentiva al Senato il metodo dei comitati segreti.
Per uscirne, fu deciso che una Commissione, secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse seduta stante e che il Senato fosse riconvocato la sera stessa alle otto per udirne la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente a far parte della Commissione, e fu incaricato, col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di Lodi per udirne schiarimenti e notizie.
Questo colloquio e le gravi e dignitose parole del vecchio uomo di Stato parvero scuotere la Commissione; la quale, scelto a relatore il Dandolo, accettò e propose al Senato l'invio della Deputazione, dirigendola però a tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda esplicita del trono pel Vicerè un elogio cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione anche maggiore di indifferenza per la persona del Principe; e in tal modo lo commentò Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava fossero i voti della nazione favorevoli a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il Paradisi, il Prina sostennero energicamente la forma del messaggio Melzi, facendo notare a ragione che, escludendo la domanda del principe a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione si risolveva in una inutilità. Al che Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti Costituzionali del Regno, erede diretto della corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore Napoleone, i senatori, che erano tali in forza di quegli Statuti, non potevano chiedere un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma non era leale; giacchè a nessun uomo di senno poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse un trono al successore immediato dell'uomo contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi nelle situazioni di forma.
Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo una nuova dizione che riservasse almeno il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi non cedette su nessun punto; ed essendosi venuti ai voti, piuttosto per istanchezza che per esaurimento della discussione, come accade nelle sedute parlamentari notturne, quasi tumultuariamente il Senato approvò a grande maggioranza il progetto СКАЧАТЬ