Lebenskunst nach Leopardi. Группа авторов
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Читать онлайн книгу Lebenskunst nach Leopardi - Группа авторов страница 17

СКАЧАТЬ e il frutto di esse dottrine ultimamente è questo; che il genere umano, esempio mirabile d’infelicità in questa vita, si aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a essere dopo quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse al mondo. (DPP 551sq.)

      Così, per Porfirio, non c’è niente di più barbaro che non poter con l’uccidersi mettere un punto ai tormenti della vita. Gli animali non conoscono il suicidio, perché in loro l’infelicità è limitata e la vita meno sentita; soltanto l’uomo desidera morire e tuttavia, per quel «dubbio» che nessun animale avrebbe e che comunque a nessun animale impedirebbe di uccidersi qualora lo volesse, gli è vietata quella «libertà» che sarebbe per lui la fine di ogni sofferenza (cf. DPP 552sq.):

      La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi; sicché non ci sia possibile né schermirci né ritirarci indietro dai loro colpi. In vero, quando io considero la grandezza della infelicità umana, io penso che di quella si debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine; e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che della natura. (DPP 553sq.)

      La lunga parentesi del Dialogo su Platone – che vale, come si accennava, in particolare per la dottrina cristiana – rivela la profonda divergenza tra le posizioni dei due protagonisti. L’invettiva che Porfirio rivolge a Platone esprime emblematicamente il dispiegarsi della forza negativa della ragione che demolisce le acquisizioni e le certezze anti-pessimistiche della tradizione occidentale; acquisizioni e certezze che Plotino con difficoltà riesce a sostenere e a difendere. Plotino rappresenta l’uomo platonico-cristiano ancora fiducioso nel destino ultraterreno dell’uomo, pensa nella prospettiva di minacce di castighi eterni e promesse di premi futuri, abita una visione del mondo per cui è ancora possibile avere scopi o valori e nutrire fede o speranza nel fatto che il mondo possa non risolversi tutto in quello terreno. Porfirio, invece, è l’«uomo copernicano»15 che ha ormai rinunciato all’iperuranio platonico-cristiano, ha svelato la «spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica» che vuole che «l’uomo […] non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla» (Zib. 4169), per cui viene meno ogni finalismo, ogni residuo di antropocentrismo, ogni presunta idea di superiorità dell’uomo e anzi riaffermato il primato della sua infelicità.

      Plotino avverte di dover lasciare da parte l’autorità e «discorrere per ragione» (DPP 555). Non Platone, né nessun altro filosofo, ma la «natura stessa» ci dice che il suicidio è un atto illecito:

      se tu penserai un poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l’uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell’universo, di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch’è il contrario appunto dell’uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto dell’uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito. (DPP 555sq.)

      In fondo alla posizione di Plotino vi è una specifica idea di natura, che emerge nelle obiezioni che egli pone a Porfirio nel seguito della discussione. La natura cui si richiama Plotino – ed è un aspetto essenziale della complessità del significato della natura in Leopardi – è quella forza originaria per cui ogni essere attende alla propria conservazione in tutti i modi possibili. In questo ordine di idee, la natura va intesa come sinonimo di vita, senso che emerge chiaramente in questo brano dello Zibaldone:

      La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S’ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s’ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa […]. Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. (Zib. 3813sq.).

      Ogni vivente si sforza di conservare la vita, vuole la vita e la continua, per questo in ogni momento della sua esistenza cerca per sé il piacere e fugge il dolore16. La natura non può essere morte, il vivente non può voler morire, vita e morte sono in contraddizione. L’ordine delle cose sarebbe sovvertito, cioè sarebbe contraddittorio, se le cose si distruggessero da se stesse, se i viventi veramente volessero non vivere, se l’essere fosse destinato al non-essere. Plotino ha così buon gioco nel sostenere l’assurdità del suicidio, gesto contrario alla natura e anzi il più contrario di tutti.

      Ma agli occhi di Porfirio, il presupposto di Plotino, cioè la sostanziale identificazione della natura e del principio di non contraddizione, per cui la natura risulta essere in armonia con se stessa e libera da contraddizioni, non regge17. Come si legge in un passo decisivo dello Zibaldone, il principio di non contraddizione perde di significato nel momento in cui si tiene conto delle «contraddizioni palpabili» che esistono nella natura:

      Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale […] che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. (Zib. 4099)

      Non solo il vivente non può essere felice né non essere infelice, e di conseguenza, per costituzione, non può realizzare se stesso, il suo bene, la sua perfezione, ma arriva al punto di rifiutare la vita, di non voler continuare a vivere, di preferire non essere piuttosto che essere. Le contraddizioni risiedono nell’essere stesso della natura; e che esistere implichi necessariamente il male, supporre che per il vivente l’infelicità non sia un male ma un bene, che non essere sia meglio che essere, è mostruoso:

      l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza […] cioè nell’essere, ed essere p[er] necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male p[er] sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora СКАЧАТЬ