— Certo è là, la tua viola — assentì l'incantatrice, con gli occhi fissi. — La vedo bene, Aldo. Ho sempre invidiato quel suo colore rossobruno, pei miei capelli. Ah, se tu potessi mai cavare una nota che gli somigli! E quelle chiazze giallastre della vernice sul fianco, più trasparenti dell'ambra! E dietro, nel mezzo della cassa, quella doratura a strisce di zebra, ricca e dolce come la gola di un uccello tropicale! Il dosso del manico è pallido, levigato dalla tua mano.
— Morìccica, e che bel liuto avevi tu per cantare! — disse l'adolescente inebriandosi. — La cassa era costruita come la carena dei navigli a liste di legno alterne, chiare e scure, ma più leggera d'un guscio di noce. E la rosa era traforata così sottilmente che appena appena ci passava un raggio di sole quando la mettevi contro luce perché si leggesse in fondo il nome del famoso liutaio.
Stavano essi addossati agli stipi, come immemori, indugiandosi nella misteriosa tregua. Pareva che tutto divenisse musica, per cui la stanza angusta abitata dall'antica anima era congiunta alla lontananza immensurabile. Non il suono delle campane faceva biancheggiare il cielo esausto d'aver sì lungamente risplenduto? S'udiva nelle pause dalla palude salire il primo coro delle rane; e, quasi illuse dalla rispondenza, n'eran bianche le acque. E tutto era bianchezza e lentezza: ancóra i veli della sera vegnente per quella fiumana d'oblio erano indistinti, se bene i salici avessero già nelle capellature un poco d'ombra.
— Questo cielo, Aldo, mi fa ripensare a quella parola che mi mostrasti in una dedica d'un Libro di Cantate, forse dedicato a me quando vivevo. Te ne ricordi?
— Me ne ricordo. «Il cielo stesso come Autore della Musica sia testimonio....»
— Autore della Musica!
— Era un libro di Cantate a voce sola, del Mazzaferrata. E ce n'era una per oggi, una per quest'ora: «Ove con pié d'argento». Era rilegato in pergamena impressa, lucida come i cofanetti di pastiglia; e sul rovescio della legatura era scritto a mano: «Doppio ardor mi consuma». E la carta era fragile, molle, consunta nei margini: cominciava a morire per le estremità come le foglie d'autunno. Te ne ricordi? Anche il libro dev'essere nello stipo.
Isabella consentiva alla fantasia dell'adolescente con quel suo sorriso durevole, sospeso su la piccola ferita del labbro.
— Vanina, — ella disse — perchè non prendi il tuo liuto e non ci canti sotto voce una canzone?
— La canzone di Thibaut de Champagne roy de Navarre: «Amors me fait commencier Une chanson novelle....» — disse Aldo. — Oppure quella d'Inghilterra, così dolce, su le parole di Ben Jonson il Tragico, quella che finisce: «O so vhyte, o so soft, o so sweet, so sweet, so sweet is shee!» A che pensi?
Vana esitò, quasi temendo di non aver più la sua voce primiera, quasi credendo di dover parlare per la prima volta con la mutata voce. Poi rispose:
— Mi domandate di cantare, e io pensavo alle parole di quell'altro tuo poeta. «O rondine, sorella rondine, io non so come tu abbia cuore di cantare.... Ti prego di non cantare, almeno per un poco!» Domandiamo una pausa alle rondini, intanto.
— È vero — disse Isabella.
Veramente i gridi delle rondini laceravano l'estasi del più lungo giorno. A tratti, gli stormi passavano dinanzi la finestra come saettamenti disperati.
— Quanto mi piace oggi, Vana, la tua malinconia! — disse Aldo.
— Anche a me — disse Isabella.
Addossata allo stipo, con la testa appoggiata alle tarsie, con le mani senza guanti abbandonate in giù, con le lunghe ciglia brune socchiuse sopra lo smalto luminoso, Vana aveva il volto di chi sentendosi venir meno rattenga tra i denti la sua propria anima e la gusti. La sua bocca era lievemente convulsa da un sapore simile a quello di certe erbe che masticate forzano i muscoli del sorriso.
— Isa, ti ricordi di quella tavoletta di Cesare da Sesto in quella bella cornice sdorata, che vedemmo a Francoforte? — disse Aldo. — È una Santa Caterina d'Alessandria, in un paese di boschi di acque di monti, vestita di verde, elle posa le mani su la ruota dentata del suo martirio. Le estremità delle sue dita smorte sono presso i denti di ferro crudeli. Ma lo spirito musicale di quella pittura ci entrò in cuore. Mi ricordo che tu dicesti: «Le sue dita si posano su la ruota così dolcemente che sembra tócchino i tasti d'un arpicordo».
— È vero.
— Così è Vana oggi.
Paolo Tarsis taciturno ascoltava il dialogo fantastico; e l'aspetto e la voce dell'adolescente gli movevano una sorda gelosia, e l'angustia di quella stanza e l'afa del passato e quelle imaginazioni e quelle morbidezze lo soffocavano. Egli a quando a quando vedeva la nuda brughiera lontana, il suo grande airone bianco ricoverato sotto la tettoia di ferro e di assi, le tuniche azzurre de' suoi meccanici occupati intorno al congegno. E dal turbamento, che gli davano i sogni musicali, nascevano le forme delle vaste nuvole che dovevano rendere patetico il cielo della sua vittoria. E, come passava rasente la finestra lo stormo a saetta, egli era percorso da una sorta d'impazienza muscolare e riudiva in sé il sibilo dell'elica.
— Quanto mi piace questo! — disse Isabella dopo una pausa, come una che abbia morso la polpa d'un frutto e ne lodi la bontà con la bocca bagnata di succo; ché la sua voce rendeva sensuali anche le sottigliezze dell'intelligenza.
— Rimaniamo qui? — disse Aldo. — Riprendi possesso del tuo Paradiso? Stanotte avremo la più grande sinfonia di rane che mai si possa udire. Le rane mantovane sono famosissime: superano perfino le ravennati in arte armonica.
— È la notte più breve.
— Io non voglio dormire.
Di nuovo egli s'era appressato alla sorella con la grazia d'un paggio, seguito dall'inquietudine di Paolo. Era tanto bello che avanzava di bellezza le due creature del suo sangue. La forma della sua fronte su l'arco dei sopraccigli era simile a quella dei giovini Immortali; e chi la guardava non poteva cessare di guardarla, ché involontariamente risaliva di continuo a quella perfezione. Ond'egli, accorgendosi che di continuo lo sguardo altrui non s'affisava ne' suoi occhi ma più su de' suoi occhi, aveva il sentimento di portare una corona ammirabile; e ne pareva accresciuta la fiamma della sua spiritualità come la leggerezza delle sue movenze.
— Bisogna dunque andare? — disse Isabella.
E rimirò la filigrana del soffitto, ove ancora l'ape dimenticata bombiva come lungh'esse le cellette dell'alveare. E rivide negli scomparti il suo nome, il motto magnanimo, l'Alfa e l'Omega, l'enigmatico numero XXVII, i segni musicali, il candelabro a triangolo, la sigla intrecciata, il mazzo di polizze bianche.
— Nec spe nec metu! Ma io spero quel che temo, e temo quel che spero.
— È per te — disse Aldo — quel madrigale di Gerolamo Belli d'Argenta che Vana ti canterà: «L'onde de' miei pensier portano il core Hor ai lidi di speme hor di paura....»
E il sogno ebbe un torbido intervallo. E tutti gli occhi chiari s'incontrarono fuggevolmente.
— Che vuol significare il numero ventisette? — chiese Vana, che nella confusione del suo spirito si volgeva con un'ansia superstiziosa verso gli indizii e i presagi.
— Non me ne rammento — rispose Isabella. — Ma è un numero che forse non dimenticherò più.
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