Forse che sì forse che no. Gabriele D'Annunzio
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Название: Forse che sì forse che no

Автор: Gabriele D'Annunzio

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

Серия:

isbn: 4064066070687

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      Quando Paolo accostò il suo viso a quello desiderato, così che l'alito si mescolò all'alito, l'amica si ritrasse e si rivolse e guardò dietro di sé. Poi fece, sommessa, con la bocca molle:

      — No. Ce n'è un altro, più bello.

      Credeva di udire il preludio indistinto d'una musica che tra breve fosse per irrompere con la veemenza del torrente.

       Varcarono una soglia; e li coperse il cupo azzurro d'un cielo notturno ove i segni zodiacali scintillarono riflettendosi nell'acqua stagnante degli specchi. Per la finestra saliva il profumo cocente e possente della magnolia, ebrezza delle costellazioni.

      — Un altro giardino?

      Era un triste cortile abbandonato. E i lampadarii di pallido vetro riapparvero in sale pompose e vuote; e riapparvero i letti insonni; e le vecchie tele cieche rossicarono e nereggiarono su le mura delle lunghe gallerie, simili alle pelli bovine tese e appese dai conciatori; e il coro dei passeri dagli embrici rotti cigolò giù per le armature sconnesse delle travi, giù pei travicelli attraversati, giù pei graticci sfondati dei palchi in ruina; e tutto fu ancóra desolazione senza bellezza.

      — Vana! Aldo e Vana!

      Lo sbigottimento spegneva il grido d'Isabella. Vedeva ella venirle incontro, pel silenzio d'una stanza occupata dall'ombra di un letto lugubre come un feretro, due creature silenziose e fisse come quelle che senza pianto dal fondo della loro stessa vita vanno incontro al destino lacrimabile.

      — Aldo, Vana, siete voi? siete voi?

      — No, Isabella. Siamo noi, nello specchio. Perché tremate così?

       — Noi!

      Era un alto cristallo che, in bilico tra due colonnette, rasentava il pavimento specchiando l'intera persona diritta in piedi. Il fascino n'emanava come da un parallelogrammo magico.

      — Perché tremate così?

      Vinta e riluttante, ella si appressava all'imagine traendo per la mano il compagno inquieto; entrava nell'ombra funerea del letto; fissa, non riconosceva il suo sguardo in quegli occhi che la guardavano quasi nudati, quasi privi di cigli, privi di battito, immensi, più misteriosi della tomba, misteriosi come la follia.

      — No, no! Ho paura.

      Ella balzò lontano, fuggi per le stanze contigue, sotto cieli d'oro e d'oltremare, sotto cieli dolci come le turchine malate e le dorature sdorate, sotto pallide ricchezze diffuse e sospese; sotto un silenzio scolpito e inevitabile.

      — Isabella!

      La desolazione si trasfigurava. Si mutavano ora in lembi di melodia patetici come i gridi del desiderio e dello spasimo le vaghe onde di musica ondeggianti intorno alle rose bianche dell'orto pensile. La ruina, liberata dai vestigi della vanità e della miseria intruse, respirava nell'antica grandezza per tutte le bocche delle sue ferite, respirava e soffriva e moriva anelante verso il più lungo giorno. Tutti i segni erano eloquenti, tutti i fantasmi cantavano. Le Vittorie mostravano l'anima di ferro sotto gli stucchi disgregati, e non più la corona fronzuta tendevano ma il cerchio di rugginoso ferro. Le Aquile sublimi abbrancavano i festoni di frutti putrefatti e caduchi.

      — Isabella!

      Ella andava andava, esitando tra l'una e l'altra stanza, non sapendo in quale l'anima sua fosse per trarre un più profondo sospiro. E le stanze si moltiplicavano; e la bellezza s'avvicendava con la ruina, e la ruina era più bella della bellezza. E gli occhi si dilatavano per tutto vedere, per tutto accogliere; e l'intero viso viveva la vita dello sguardo. E l'anima si ricordava; ché le forme scomparse rinascevano e si ricomponevano in lei musicalmente, e traeva essa la gioia della perfezione da ciò ch'era imperfetto, la gioia della pienezza da ciò ch'era menomato. E il giorno era protratto dal prodigio ma nessun indugio era concesso; e su ogni soglia il piede si posava temendo il divieto ma lontana era tuttavia la soglia della sera.

      — C'è in là un altro giardino, — diceva ella errando — un altro giardino.

      E, attraverso una grata, apparve una corte ingombra di macerie e d'erbe fra mura fendute ove rimanevano tracce di ornati dipinti a nodi; e, oltre le mura, una zona di palude rifulse, e riudito fu lo stridìo delle rondini, e traudito fu il gracidìo delle rane, nel cielo, nell'acqua, in un solo ardore indistinto. E la straziante Estate chiamò, tra l'una e l'altra voce.

      — Non è questo.

      Ella vacillava sul pavimento sconnesso, ancor qua e là inverdito dallo stillicidio; e sopra lei le macchie pluviali scurivano i lacunari azzurri del soffitto ove un oro più nobile e più solido di tutti gli ori s'ammassava in volute, in rosoni, in pigne scolpiti con robustezza romana. Le Sirene s'incurvavano, tra i fogliami sporgenti come le mammelle dei bei mostri marini, in un fregio di così forte rilievo che eguagliava la misura dei grandi versi memorabili. Lungo gli stipiti delle alte finestre le Vittorie tendevano all'estremità dei moncherini i cerchi di ferro rugginoso.

      — No, Paolo, no! Non qui, non qui! Vi supplico!

      Ella sfuggiva alle mani tremanti del compagno. Gli mostrava un viso che pareva decomporsi e ricomporsi come nella vicenda del terrore e dell'ebrezza. Ed entrambi, da una soglia all'altra, dalla luce all'ombra, dall'ombra alla luce, perseguitavano la loro angoscia senza fine.

      — È questo? — disse Paolo chinandosi a un davanzale.

       Era la squallida memoria d'un altro giardino pensile, ingombro di ortiche, di rottami, di vecchie docce contorte. Un Tritone sonava la bùccina su una parete forata e maculata; qualche papavero ardeva qua e là come una fiammella spersa. Più nere parevano le rondini in un cielo più lontano.

      — Ci può essere una cosa più triste in terra? — disse la donna ritraendosi.

      Ricominciava la desolazione: la cappa demolita d'un camino nera di fumo; una serie di finestre murate; un corridoio cosparso di calcinacci; un'aula biancastra con su le pareti le tracce del lordume umano e dei tramezzi sovrapposti; una scala di pietra consunta; e un altro corridoio simile alla corsia d'un ospedale evacuato; e poi un'altra scala immensa, discendente fra nicchie deserte a un'orrida porta fatta di assi sconnesse e di travi traverse, che pur pareva più inespugnabile del triplice bronzo, inchiodata sopra un varco senza nome.

      — Isabella!

      — Ho paura, ho paura.

      Ella aveva in sommo della gola l'atroce pulsazione della sua vita. Perduta era dentro di sé, fuori di sé.

      — Dove siamo? Si fa sera?

      Egli l'aveva ancóra presa per la mano come per condurla; e dentro di sé e fuori di sé era perduto. Camminavano sul loro stesso tremito, come su una corda tesa e oscillante.

      — Ah, non posso più!

      Chi dei due aveva esalato quell'anelito? Ancor due erano le bocche ma una era l'ambascia, e le loro due forze confuse non la sostenevano.

      — Non posso più!

      D'improvviso rientravano nell'azzurro e nell'oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.

      — Forse, forse, forse....

      Verso l'oro e l'azzurro ella aveva levato la faccia; e la sua stessa anima era diffusa sul suo capo ricca e inestricabile, СКАЧАТЬ