Название: Forse che sì forse che no
Автор: Gabriele D'Annunzio
Издательство: Bookwire
Жанр: Языкознание
isbn: 4064066070687
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— Non so — rispose la bocca baciata.
— Non so — rispose il costruttore d'ali incatenato alla terra.
— Perché, Morìccica?
— Non so — rispose la vergine oscura che aveva voluto esser macchiata dalla goccia del sangue voluttuoso.
— Non so — rispose a sé medesimo l'adolescente oppresso dei suoi anni così pochi e così carichi d'ignota pena.
E non sapevano; e in ciascuno era una strana esitanza a uscire da quel luogo, a volgersi altrove, ad andare avanti o a tornare indietro, come se dall'alto le liste d'oro si prolungassero in una zona pieghevole che invisibilmente li circuisse e li annodasse di continuo.
— Andiamo — disse Aldo ponendo il braccio sotto quello d'Isabella. — Io voglio vedere il Paradiso, e nulla più.
Quando per la scaletta di tredici gradini il custode li condusse agli scrigni della principessa estense, quando riudirono la rondine stridere nella perla sospesa del giorno, la potenza chimerica della vita li percosse tutti nel mezzo del cuore, quivi fece più crudamente dolere i mali e i sogni inconfessabili. E l'uomo nel rigoglio della virilità esperto d'ogni rischio e d'ogni mèta, immune da ogni paura e da ogni abitudine, armato di diffidenza e di dispregio, che aveva conosciuto giorni innumerevoli in cui la disciplina della sua virtù piantata su le due calcagna gli bastava a vivere, guardò il meraviglioso ingombro del corpo omai promesso e oppose al presentimento della sciagura l'imagine dell'orgia liberatrice, memore del marinaio disceso nel porto per ripartir più leggero domani verso l'Oceano; e gli gonfiò le vene l'impazienza di saziarsi. Non ignara del piacere e bisognosa di gioire soffrendo, smaniosa di sporgersi all'orlo delle tentazioni più terribili, con un cuore timido e temerario, soave e spietato, la donna aspirava intorno a sé l'ardore delle anime simile all'odore sulfureo dell'uragano; e non formava alcun disegno, non si preparava contro l'impreveduto; pesava sul ritmo de' suoi ginocchi la divina bestialità del suo corpo, covava la sua astuzia e la sua lussuria nel suo calore più profondo. Ma la vergine e l'adolescente non avevano difesa contro lo strazio, non contro il profumo della magnolia, non contro la pallidezza della palude, né contro l'estasi dell'aria, pieni entrambi di forze discordi che facevano un cupo tumulto disperdendosi e risollevandosi a ogni soffio intorno un'ombra che forse aveva una sembianza da non poter essere guardata fisamente senza terrore.
— Ecco il mio giardino — disse Isabella piegandosi sul davanzale, con l'accento medesimo ond'ella avrebbe detto all'inizio d'una confessione impetuosa: «Ecco la mia colpa, ecco la mia gloria».
Un'ebrezza perversa si partiva da lei, mista di spontaneità e d'artifizio, espressa ora col viso nudo ora con la maschera, ora con l'affettazione dell'attrice sapiente ora con la più ignara grazia animale.
— Te l'imaginavi così, Aldo?
Al fianco di lei si piegava il fratello, cingendole col braccio la cintura, su la pietra calda.
— Guarda, Morìccica. Guardate, Tarsis.
Vana e Paolo s'appressarono; ed ella si scansò perché giungessero a scoprire i rosai. Attirò Vana contro sé per sentirla fremere; e sul capo chino di lei fece passare il suo sguardo verso l'amante, uno sguardo che non era un baleno ma qualcosa che pesava, che colava come una materia fusa. E stavano là tutt'e quattro in un gruppo, nel calore, nell'odore, invasi da un intorpidimento leggero che somigliava il principio di un incantesimo.
Anche il giardino era intorpidito, quasi imbiutato d'un silenzio pingue come il miele come la cera come la gomma. Era un abbandono e una tristezza che si consumavano in profumo tardo. Gli spiriti dell'olio si sprigionavano dal cociore dello spigo e del rosmarino; le albicocche pendevano mézze nella fronda floscia, qualcuna sfatta, aperta sul nòcciolo, stillante; i rosai non potati avevano sprocchi tanto lunghi e teneri che s'incurvavano sotto una rosa scempia; e la pallida palude vergiliana appariva di là dagli alti gigli tanto ricchi di pòlline che n'eran lordi.
— Quando io vivevo — disse piano l'incantatrice, col volto quasi vaporato dalla squisitezza del sorriso — il mio giardino era pieno di pecchie e di camaleonti.
Un'ape entrò, sonora. Gli occhi dell'adolescente la seguirono con una meraviglia che rese straordinario il volo. Tutt'e quattro, raccolti nello strombo della finestra, ascoltarono il lungo errante ronzo. Poi si guardarono tra loro fuggevolmente, e videro che tutt'e quattro avevano gli occhi chiari ma diversi, attoniti come se questa simiglianza dissimile scoprissero per la prima volta.
— Ah come sapevo vivere! — soggiunse Isabella affascinata dal suo gioco stesso. — Nelle mie piccole stanze, sul margine dei miei stagni pigri, possedevo i sogni delle città famose. Vedete, vedete: quelle del settentrione e quelle del mezzogiorno, le brune e le bionde, le grige e le bianche....
E apparivano nelle lunette le piante dipinte delle città circondate di mura e di torri, bagnate dal mare, attraversate dal fiume, fondate sul monte: Parise e Gerusalemme, Ulma e Lisbona, Berna e Marsilia; e quelle che sono per le imaginazioni degli uomini come gli aromi gli ozii le febbri i filtri le danze: Algeri, Toledo, Messina, Malta, l'egizia Alessandria.
— Isa, Isa, — sospirava l'adolescente — perché non siamo stanotte nella vecchia Algeri, su una terrazza bianca, vestiti di seta, con molti cuscini, con molte bevande, con qualcuno che ci canti qualche lunga storia che noi s'ascolti e non s'intenda!
— Taci, taci — ella disse con l'indice su la bocca, avanzandosi lievemente verso l'altra soglia. — Ascolta l'ape.
L'artefice studiosa era passata nella saletta contigua; e il bombo pareva cambiar tono, farsi più sonoro, come moltiplicato da una tavola armonica, simulando il vibrare della corda bassa.
— Ascolta, che musica!
— Suona la viola bordona — disse Aldo, sommesso, appressandosi in punta di piedi, tratto dall'istinto mimico dell'adorazione a imitare i modi della sorella.
Si sporse dalla soglia l'incantatrice, poggiando le mani all'uno e all'altro stipite; guardò intorno, guardò in alto; poi senza parlare volse la faccia irradiata dal riflesso del tesoro scoperto. E tutti gli occhi chiari intorno ricevettero il grande bagliore.
Entravano nella cassa dorata d'un clavicembalo? entravano in una teca votiva lavorata dal principe degli orafi per custodire gli avorii miracolosi dell'arpa di Santa Cecilia? Il bombo dell'ape era come la vibrazione della corda sotto la penna di corvo in una cadenza allungata; ma il silenzio era come il silenzio che vive dentro i reliquiarii.
— Isabella! Isabella! — ripeteva l'adolescente, abbagliato, leggendo per ovunque il nome della divina Estense.
E la sorella con un sorriso di felicità infantile guardava attorno interrogando lo stupore di ognuno, come per una foggia della sua eleganza, come quando metteva una bella veste nuova e chiedeva: «Ti piace? Vi piace? È tutta mia l'invenzione».
— Quando io vivevo — disse piano — qui si faceva musica, verso quest'ora. Te ne ricordi, Vanina?
— Io me ne ricordo — disse Aldo, movendo a vuoto le dita della sinistra come usava lungo il manico del suo violoncello. — Forse la mia viola da gamba è ancora chiusa là, in quello stipo.
Più delicata della filigrana era l'opera del soffitto, intorno all'arme delle due aquile e dei tre gigli d'oro. Alle pareti erano gli stipi per gli strumenti e per le intavolature, e nel legno figurati a tarsia il dolzemele il buonaccordo la viola la virginale l'arpa, e miste alle figure СКАЧАТЬ