Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс
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Читать онлайн книгу Il ritorno dell’Agente Zero - Джек Марс страница 6

СКАЧАТЬ lo colpiva come una mazzata alla testa. Stava rischiando di morire in quella stanza. “Ti sto dicendo la verità!” insistette. All’improvviso le parole sgorgarono dalle sue labbra, come acqua che avesse sfondato una diga. “Mi chiamo Reid Lawson. Ti prego, dimmi perché sono qui. Non so che cosa sta succedendo. Non ho fatto niente…”

      L’uomo schiaffeggiò Reid sulla bocca. La sua testa scattò di lato e lui ansimò per il dolore del labbro appena spaccato.

      “Il tuo nome.” L’uomo si pulì il sangue dall’anello d’oro che aveva alla mano.

      “Te l’ho detto,” balbettò. “Mi chiamo Lawson.” Soffocò un singhiozzo. “Ti prego.”

      Alzò lo sguardo, spaventato. Il suo interrogatore lo fissò a sua volta, impassibile e freddo. “Il tuo nome.”

      “Reid Lawson!” Reid sentì il calore salirgli sulle guance, mentre il dolore si trasformava in rabbia. Non sapeva che altro dire, che cosa volessero che dicesse. “Lawson! È Lawson! Potete controllare la mia…” No, non potevano controllare la sua carta d’identità. Non aveva avuto con sé il portafoglio quanto i tre uomini lo avevano preso.

      Il suo interrogatore schioccò la lingua in segno di disapprovazione e poi scagliò un pugno ossuto al centro del plesso solare di Reid. Di nuovo il professore si ritrovò senza fiato. Per un minuto intero non riuscì a respirare; e alla fine boccheggiò ansimante. Gli bruciava il petto. Gli colava il sudore sulle guance e gli bruciava sul labbro spaccato. La testa gli pendeva senza forza, il mento appoggiato sul petto, mentre lottava contro un’ondata di nausea.

      “Il tuo nome,” ripeté con calma l’interrogatore.

      “Io… non so che cosa vuoi che ti dica,” sussurrò Reid. “Non so che cosa stai cercando. Ma non sono io.” Stava impazzendo? Era certo di non aver fatto niente per meritarsi un trattamento di quel tipo.

      L’uomo con la kufi si sporse di nuovo in avanti, prendendo gentilmente il mento di Reid tra due dita. Gli sollevò il capo, costringendolo a guardarlo negli occhi. Le sue labbra sottili si stesero in un sorrisetto.

      “Amico mio,” disse. “Le cose andranno molto molto peggio, prima di migliorare.”

      Reid deglutì e sentì il sapore del rame in fondo alla gola. Sapeva che il sangue era un emetico; bastavano settecento grammi per far vomitare, e lui si sentiva già nauseato e stordito. “Ascoltami,” lo implorò. La sua voce suonò tremante e timida. “Mi chiamo Reid Lawson. Sono un professore di storia europea alla Columbia University. Sono vedovo e ho due…” Si interruppe. Fino a quel momento i suoi rapitori non avevano dato nessuna indicazione di sapere delle sue figlie. “Se non è questo che state cercando, non posso aiutarvi. Ti prego. È la verità.”

      L’interrogatore lo fissò per un lungo momento, senza battere ciglio, poi disse seccamente qualcosa in arabo. Reid sussultò a quello scatto improvviso.

      La serratura si aprì di nuovo. Oltre la spalla dell’uomo, Reid vide apparire la forma della porta. Sembrava di qualche tipo di metallo, ferro o acciaio.

      La stanza, capì, era stata costruita per essere una cella di prigione.

      Una sagoma apparve all’ingresso. L’interrogatore disse qualcos’altro nella sua lingua nativa, e la sagoma svanì. Sogghignò verso Reid. “Lo vedremo,” disse semplicemente.

      Accompagnato da un cigolio di ruote, la sagoma riapparve, quella volta spingendo un carrello metallico nella stanzetta di cemento. Reid riconobbe chi lo spingeva, era l’uomo grosso e silenzioso che era apparso a casa sua, con la stessa espressione accigliata di prima.

      Sul carrello c’era una macchina arcaica, una scatola marrone con una decina di manopole e manovelle e grossi cavi neri che spuntavano da un lato. Dal lato opposto emergeva un rotolo di carta bianca su cui si agitavano aghi sottili.

      Era un poligrafo, probabilmente vecchio quanto Reid, ma comunque una macchina della verità. Sospirò per il sollievo. Almeno avrebbero capito che stava dicendo la verità.

      Che cosa gli avrebbero fatto in seguito… preferiva non pensarci.

      L’interrogatore cominciò a stringere i due sensori con il velcro alle sue dita, un manicotto attorno al suo bicipite sinistro e due corde attorno al suo petto. Si sedette di nuovo, estrasse una matita dalla tasca e si infilò l’estremità con la gomma rosa in bocca.

      “Sai che cosa è,” disse semplicemente. “Sai come funziona. Se dici qualsiasi cosa che non sia la risposta alle mie domande, ti faremo del male. Lo capisci?”

      Reid annuì una volta sola. “Sì.”

      L’interrogatore premette un pulsante e armeggiò con le manopole sulla macchina. Il gigante accigliato era immobile dietro di lui, bloccando la luce della lampada e fissando storto Reid.

      Gli aghi sottili si mossero leggermente sopra il rotolo di carta bianca, lasciando quattro segni neri. L’interrogatore scarabocchiò qualcosa sul foglio e poi spostò lo sguardo freddo su Reid. “Di che colore è il mio cappello?”

      “Bianco,” rispose piano Reid.

      “Di che specie sei tu?”

      “Umano.” L’interrogatore stava stabilendo i valori di riferimento per le successive domande—di solito si annotavano quattro o cinque verità per controllare le potenziali bugie.

      “In che città vivi?”

      “New York.”

      “Dove sei ora?”

      Reid quasi sbuffò. “In una… sedia. Non lo so.”

      L’interrogatore fece qualche segno intermittente sulla carta. “Come ti chiami?”

      Reid fece del suo meglio per tenere ferma la voce. “Reid Lawson.”

      Tutti e tre stavano fissando la macchina. Gli aghi continuarono indisturbati; non c’erano creste o vallate significative nelle linee tracciate.

      “Che lavoro fai?” chiese l’interrogatore.

      “Sono un professore di storia europea alla Columbia University.”

      “Da quanto tempo fai il professore?”

      “Tredici anni,” rispose sinceramente Reid. “Sono stato assistente professore per cinque e professore aggiunto in Virginia per sei. Da due anni sono professore associato a New York.”

      “Sei mai stato a Tehran?”

      “No.”

      “Sei mai stato a Zagreb?”

      “No!”

      “Sei mai stato a Madrid?”

      “N-sì. Una volta, circa quattro anni fa. Sono andato per un summit, mi ci ha mandato l’università.”

      Gli aghi rimasero stabili.

      “Non vedete?” Per quanto Reid avrebbe voluto gridare, cercò di rimanere calmo. “Avete la persona sbagliata. Chiunque stiate cercando, non sono io.”

      L’interrogatore spalancò le narici, ma altrimenti non reagì. Il gigante congiunse le mani davanti a sé, le vene in netto rilievo sulla sua pelle.

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