Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс
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СКАЧАТЬ restauro allo Smithsonian American Art Museum. Le loro ragazze erano state felici. La vita era stata perfetta.

      Ma come disse il poeta Robert Frost, niente rimane d’oro. Un pomeriggio d’inverno Kate era svenuta sul lavoro, o almeno era quello che avevano pensato i suoi colleghi quando all’improvviso si era accasciata e caduta dalla sedia. Avevano chiamato un’ambulanza, ma era stato troppo tardi. Era stata dichiarata morta non appena era arrivata in ospedale. Un’embolia, avevano detto. Un coagulo di sangue era arrivato al suo cervello e aveva causato un’ischemia. I dottori avevano usato termini quasi incomprensibili nelle loro spiegazioni, come se avrebbe potuto attutire il colpo.

      La cosa peggiore era stata che Reid era via quando era successo. Era stato a un seminario a Houston, in Texas, a tenere lezioni sul Medioevo quando era arrivata la chiamata.

      Era stato così che aveva scoperto che la moglie era morta. Una telefonata, appena uscito da una sala conferenze. Poi c’era stato il viaggio fino a casa, i tentativi di consolare le figlie nel bel mezzo del proprio dolore devastante, e infine il trasloco a New York.

      Si alzò dalla poltrona e rovesciò la foto. Non gli piaceva ripensare all’ultimo periodo, alla fine e a ciò che era venuto dopo. Voleva ricordarla in quella maniera, come nella foto, Kate al suo meglio. Era ciò che sceglieva di ricordare.

      C’era anche qualcos’altro, qualcosa su cui non riusciva a mettere il dito, una specie di memoria distante che cercava di risalire alla superficie mentre fissava la foto. Era quasi un déjà vu, ma non riguardava il presente. Era come se il suo subconscio stesse cercando di mandargli un messaggio.

      Un colpo improvviso alla porta lo riportò alla realtà. Reid esitò, chiedendosi chi poteva essere. Era quasi mezzanotte; le ragazze erano a letto già da un paio d’ore. Il rumoroso bussare risuonò di nuovo. Temendo che potesse svegliare le ragazze, si affrettò a rispondere. Dopo tutto, viveva in un quartiere sicuro e non aveva ragione di temere di aprire la sua porta, anche se era mezzanotte.

      Non fu il gelido vento invernale a paralizzarlo. Fu lo spettacolo dei tre uomini dall’altra parte della soglia. Erano mediorientali, ognuno con pelle scura, barba e occhi infossati, vestiti con grosse giacche nere e stivali. I due ai lati erano alti e magri, il terzo, un po' indietro, aveva spalle larghe e una figura imponente, oltre a una smorfia torva sul volto.

      “Reid Lawson,” disse l’uomo alto sulla sinistra. “È lei?” Il suo accento sembrava iraniano, ma era poco percettibile, suggerendo che avesse passato molto tempo lontano da casa.

      A Reid si seccò la gola notando, al di là delle loro spalle, un furgoncino grigio lasciato in moto davanti al marciapiede, con le luci spente. “Uhm, mi spiace,’” rispose. “Credo che abbiate sbagliato casa.”

      L’uomo alto sulla destra, senza togliere lo sguardo da Reid, alzò un cellulare verso i suoi due soci. L’uomo a sinistra, senza fare domande, fece un singolo cenno con il capo.

      Senza alcun preavviso, l’uomo più grosso avanzò, con una rapidità sorprendente per la sua stazza. Una mano pesante scattò verso la gola di Reid. Il professore indietreggiò senza pensare, barcollando nell’ingresso e incespicando nei propri piedi. Recuperò l’equilibrio, sfiorando il pavimento con le dita.

      Mentre scivolava all’indietro, i tre uomini erano entrati in casa sua. Il panico lo riempì, pensando solamente alle figlie addormentate nei loro letti al piano di sopra.

      Si voltò e attraversò di corsa l’ingresso, fino alla cucina, dove superò l’isola. Si lanciò un’occhiata alle spalle, e vide che gli uomini gli stavano dando la caccia. Il cellulare, pensò disperatamente. Era nel suo studio, sulla scrivania, e gli aggressori gli bloccavano la strada.

      Doveva portarli via dalla casa e dalle ragazze. Sulla sua destra c’era la porta che dava sul cortile. La aprì di scatto e corse sulla veranda. Uno degli uomini imprecò in una lingua straniera, arabo, immaginò, mentre lo seguivano. Reid saltò sopra la ringhiera della veranda e atterrò sul prato. All’impatto un lampo di dolore gli esplose nella caviglia, ma lo ignorò. Raggiunse l’angolo della casa e si appiattì contro la parete di mattoni, cercando disperatamente di acquietare il suo respiro ansimante.

      I mattoni erano gelidi al tocco e la leggera brezza invernale tagliava come un coltello. Aveva già le dita dei piedi insensibili per il freddo, perché era corso fuori di casa solo con i calzini. Si sentiva gli arti scossi da brividi.

      Udiva gli uomini che sussurravano, con voce bassa e urgente. Contò quanti erano: uno, due e tre. Erano fuori di casa. Bene: significava che volevano solo lui e non le ragazze.

      Doveva mettere le mani su un telefono. Non poteva tornare dentro casa senza mettere in pericolo le ragazze e non poteva neanche bussare alla porta di un vicino. No… ma c'era un telefono per le emergenze montato su un palo della luce lungo la strada. Se fosse riuscito ad arrivarci…

      Fece un profondo respiro e scattò nel cortile buio, osando attraversare la luce gettata dai lampioni. La sua caviglia pulsò in segno di protesta e lo shock del freddo gli punzecchiò le piante dei piedi, ma si costrinse a muoversi il più in fretta possibile.

      Reid si lanciò un’occhiata dietro le spalle. Uno degli uomini alti lo aveva visto. Gridò ai suoi soci, ma non si gettò all’inseguimento. Strano, pensò Reid, ma non si soffermò a farsi domande.

      Raggiunse il telefono per le emergenze, aprì la sua scatola e premette il pollice sul pulsante rosso, che avrebbe mandato un allarme alla centrale più vicina del 911. Si guardò di nuovo alle spalle. Non vide nessuno degli uomini.

      “Pronto?” sibilò nella cornetta. “Qualcuno mi sente?” Dove era la luce? Non avrebbe dovuto accendersi una luce quando si premeva il pulsante di chiamata? Il telefono era attivo? “Mi chiamo Reid Lawson, tre uomini mi stanno inseguendo, vivo al…”

      Una mano robusta strinse i corti capelli castani di Reid e lo tirò all’indietro. Gli si bloccarono le parole in gola e si trasformarono in un rantolo.

      Un momento dopo, c’era una stoffa ruvida sulla sua faccia, che lo accecava—una sacca sulla sua testa—e allo stesso tempo le sue braccia gli erano state tirate dietro la schiena e bloccate da manette. Cercò di lottare, ma era paralizzato, i polsi piegati fino a far male.

      “Aspettate!” riuscì a gridare. “Vi prego…” Un colpo gli si abbatté sull’addome con tanta forza da lasciarlo senza fiato. Non riusciva a respirare, né tantomeno parlare. Un vortice di colore gli esplose davanti agli occhi e quasi svenne.

      Poi cominciarono a trascinarlo. I suoi piedi nei calzini scivolavano sul cemento. Lo infilarono nel furgone e chiusero la portiera. I tre uomini si dissero qualcosa nella loro lingua sconosciuta con tono d’accusa.

      “Perché?” riuscì a chiedere alla fine.

      Gli infilarono un ago acuminato nel braccio e tutto il mondò svanì.

      CAPITOLO DUE

      Cieco. Freddo. Scosso. Assordato. Confuso. Dolorante.

      La prima cosa che Reid notò svegliandosi fu che il mondo era buio, non riusciva a vedere niente. La puzza acre di carburante gli riempiva le narici. Cercò di muovere le membra doloranti, ma le mani erano legate dietro la sua schiena. Stava congelando, ma non c'era un alito di vento, solo aria fredda, come se fosse seduto in un frigo.

      Lentamente, come se emergessero da una nebbia, i ricordi di quello che era successo gli tornarono alla mente. I tre uomini mediorientali. La sacca sulla testa. L’ago nel braccio.

      Il panico prese il sopravvento СКАЧАТЬ