La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Название: La città del re lebbroso

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ rispose il generale, soffocando un sospiro. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che potrebbero verificarsi.»

      «Tu mi spaventi, padre.»

      «No, Len-Pra.»

      «Che cosa vuoi concludere allora?»

      «Che alla tua età devi sapere dove si trovano le ricchezze che un giorno ti dovranno spettare in eredità.

      All’estremità del nostro giardino, in un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse tutte le gioie della famiglia e le verghe d’oro che ho accumulato in tanti anni di economia.

      Vi è là dentro tanto da farti ricca, giacché, nei saccheggi delle città cambogiane e birmane, mi è toccata come mia parte una fortuna considerevole.

      Nessuno sa che le mie ricchezze si trovino immerse in quel bacino, che è guardato dai due gaviali onde garantirle dai ladri. Ecco quello che volevo dirti.»

      «Potevi dirmelo un altro giorno, o fra parecchi anni, padre,» disse Len-Pra. «Tu sei ancora robusto e nessuna malattia ti minaccia.»

      «È vero, ma per precauzione ho preferito dirtelo questa sera.»

      Si alzò, voltando le spalle alla lampada per nascondere la profonda emozione che gli alterava il viso, e si diresse verso un angolo della stanza, dove stava un gran bacino d’argento pieno d’acqua, con entro un altro bacino di rame sottilissimo, già quasi tutto sommerso.

      Era un orologio ad acqua, usato anche oggi dai Siamesi. Nel secondo bacino, più piccolo del primo e leggerissimo, vi è un buco quasi invisibile che permette all’acqua di entrare a poco a poco finché lo fa colare a picco.

      «Un’altra ora è passata,» disse, mentre il bacino s’immergeva.

      In lontananza, i gong del palazzo reale echeggiavano rumorosamente, invitando gli abitanti a spegnere i lumi ed a coricarsi.

      «È tardi,» disse Lakon-tay con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va’ a coricarti mia dolce Len.»

      S’accostò alla fanciulla, che lo guardava con una profonda mestizia, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.

      «Va’, fanciulla,» le disse. «Avrò ancora da fare un po’ prima di coricarmi.»

      Mentre Len-Pra si ritirava nella sua stanza, Lakon-tay uscì sulla veranda, aspirando avidamente l’aria fresca della notte, carica di profumi deliziosi.

      Il Menam, illuminato dalla luna salita ormai in cielo, svolgeva la sua immensa curva, scintillante come se le sue acque fossero d’argento, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando dolcemente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche che si alzavano per la marea montante.

      I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri morivano sulla superficie dell’immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi suoni d’un tro.

      La città s’addormentava a poco a poco, mentre la luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati delle pagode e le punte ardite delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi delle phra-chedi e tremolare le immense foglie dei cocchi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.

      Lakon-tay, appoggiato alla ricca balaustrata della veranda, laccata e dorata, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzare nubi nerissime. Guardava verso la necropoli.

      «Domani anche il mio corpo sarà là,» disse. «No, Lakon-tay non deve sopravvivere alla sua disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i S’hen-mheng! Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nell’altra vita. Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che l’attende.»

      Un grido che echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.

      «L’uccello della notte si è posato sulla mia phe,» disse con un triste sorriso. «Forse l’anima di mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.»

      Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.

      Capitolo IV. Il dottore bianco

      La stanza del generale era ampia e arredata con molto buon gusto, quantunque predominasse in tutti i mobili lo stile cinese piuttosto che il siamese.

      Le pareti erano coperte di quella meravigliosa carta di seta, con fiori, uccelli, lune e draghi, così cara ai Cinesi; il soffitto era tutto scolpito e dorato, il pavimento di porcellana a disegni stravaganti, che raffiguravano animali fantastici. Alle finestre ricche tende di seta verde cupe, nel mezzo un ampio letto di forme massicce, con coperte di seta e una zanzariera poi qua e là, negli angoli e lungo le pareti, divanetti, mobili leggerissimi laccati ed incrostati d’avorio e d’argento, poi vasi giapponesi e Cinesi, e vasi Siamesi d’oro, meravigliosamente cesellati; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Sommona Kodom.

      Appesi alle pareti, disposti con un disordine pittoresco, si vedevano tondi istoriati di antichissima porcellana, armi di varie specie, e drappi preziosi tempestati di rubini, che ricordavano nei loro disegni e nelle loro tinte gli splendidi tessuti dei Birmani.

      Lakon-tay, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola d’argento, si vedeva una larga spada dalla lama diritta a due tagli, colla guardia piccolissima, specie di enorme rasoio. Era la sua catana di guerra, un’arma di fabbrica giapponese, taglientissima, già tinta e ritinta un tempo nel sangue dei Birmani e dei Cambogiani.

      La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada azzurra che ardeva proprio sopra il letto; poi, senza che un muscolo del suo viso trasalisse, se l’accostò alla gola.

      Ad un tratto però abbassò l’arma, poi la gettò su uno dei divanetti.

      «No,» disse. «Il sangue farebbe troppa impressione alla dolce Len-Pra.»

      Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino giapponese, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d’acqua e di liquori.

      «La morte mi coglierà nel sonno,» mormorò.

      Aprì uno di quei vasetti e ne tolse una palla di colore brunastro, grossa come una piccola noce di cocco, che tagliò a metà con un coltello dal manico d’oro. Levò dall’interno, che era un po’ molle, un pezzetto che gettò in una tazza già piena d’acqua.

      Mescolò per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò d’un fiato.

      Poi attraversò la stanza, sempre calmo, sempre impassibile, e si adagiò sul letto, mormorando: «Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e salvarti dalla schiavitù.»

      Un tremito scosse il suo corpo.

      «Ecco il sonno eterno che si avanza,» mormorò ancora.

      E chiuse le palpebre divenute pesantissime, mentre sulla veranda l’uccello della notte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.

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