La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Название: La città del re lebbroso

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ style="font-size:15px;">      «Signore,» gli disse, mentre i suoi occhi si empivano di lagrime.

      «Avvertite il re della sventura che è piombata sulla sua casa.»

      Capitolo II. Il re del Siam

      La dolce Parvati, la sposa del dio Sivah, così venerato dagl’indiani, trovandosi un giorno nel bagno, si divertiva a raccogliere le bianche pellicole che si staccavano dal suo grazioso corpo.

      Le preziose particelle di quell’essere divino vennero modellate dalle sue dita, come l’argilla dalle mani di uno scultore. Tosto delle forme umane cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo uscì dalla vasca di diaspro, entro cui la bellissima dea si bagnava.

      La dea – narra sempre la leggenda indiana – le soffiò allora nella bocca, un vagito s’udì: era un essere umano che apriva gli occhi alla luce.

      Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Sivah, tornando dalla guerra contro i giganti maligni che volevano bruciare il mondo, con sua sorpresa e collera, trovò nel palazzo reale un nuovo rampollo di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, trasse la scimitarra tinta mille volte nel sangue dei nemici e tagliò netto il collo a quel fanciullo.

      La dolce Parvati raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa.

      «Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»

      Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile scimitarra fece saltare la testa del suo elefante da guerra e la posò sulle spalle del bimbo decapitato.

      Grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Ganesha, la cui testa d’elefante si dondola sul suo corpo d’uomo, fu annoverato fra gli dei dell’India.

      Protetto da una tale divinità, l’elefante non doveva mancare di essere considerato come un animale superiore allo stesso uomo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa.

      Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti coll’India rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e l’elefante fu senz’altro accettato dai Birmani prima e dai Siamesi poi, come una divinità protettrice di quegli stati.

      Fecero però delle eccezioni. Possedendo quei paesi fortunati degli elefanti bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori gli elefanti più o meno grigi, diedero la preferenza a quelli… ammalati!… Ormai è noto che i famosi elefanti bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei… lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! Ma la scelta degli elefanti bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva un’origine religiosa.

      Sia i Birmani che i Siamesi sono tutti adoratori di Budda, dio che i primi venerano sotto il nome di Gautama ed i secondi sotto quello di Sommona Kodom.

      Ora le antiche leggende narrano che questo Sommona era nato dio per sua propria virtù, che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti.

      Un giorno il dio, essendosi seduto all’ombra d’una pianta chiamata tampo, salì in cielo su un trono sfolgorante d’oro e di pietre preziose, e si dice che gli spiriti celesti, abbagliati da tanto splendore, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo.

      Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Thevetat, che doveva essere una specie di Caino; quell’invidioso, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi.

      Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, l’una delle quali seguiva Sommona Kodom come modello di virtù, e l’altra lo scellerato Thevetat che colle sue massime ree istigava gli uomini al vizio.

      Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, al pari di Satana, in un abisso fiammeggiante.

      Narrano ancora le antiche leggende Siamesi e birmane che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vani animali, fra cui quello d’un elefante bianco.

      Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse l’anima del dio.

      Ecco spiegato il motivo per cui Siamesi e Birmani hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari animali, che per i primi rappresentano Sommona Kodom, e per gli altri Gautama ossia Budda.

      Perciò la morte dell’ultimo S’hen-mheng non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull’animo del re, bensì dell’intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!…

      Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Lakon-tay uscì dal palazzo dei S’hen-mheng colla morte nel cuore, pallido, disfatto, per recarsi dal re a dargli il terribile annuncio. Non era uomo che avesse paura della morte il ministro degli elefanti bianchi, oh no!

      Prima di essere innalzato a quella carica, da tutti i grandi della corte ardentemente agognata, Lakon-tay era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto valorosamente contro i Cambogiani, gli Stienghi e i Birmani che avevano violato le frontiere.

      Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse era serbata alla dolce Len-Pra, la sua unica figlia che egli adorava pazzamente e che certo doveva venire travolta nella disgrazia che colpiva il padre.

      Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette S’hen-mheng e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino all’ultimo tical, le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri pachidermi, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.

      Uscì solo, senza guardare in viso nessuno, come un delinquente ormai condannato, cupo e affranto, a testa bassa, le unghie conficcate nel petto, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole scintillavano agli ultimi raggi del sole morente, sullo sfondo di un cielo fiammeggiante.

      Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il mahut favorito dal povero S’hen-mheng, perché tutti temevano d’essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.

      Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei graziosi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette ricche di dorature e coi cuscini di seta, e dove si bagnavano in gran numero le gru coronate dalle lunghe gambe e bande di aironi, Lakon-tay, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò, quasi senza saperlo, dinanzi al palazzo abitato dal re.

      Nel 1865 – epoca in cui comincia questa storia – il palazzo reale di Bangkok era ancora annoverato fra le meraviglie del reame.

      Era cinto СКАЧАТЬ