La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Название: La città del re lebbroso

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ centro di quell’immenso recinto sorgeva il mahapregat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze occidentali ed orientali, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in un’urna d’oro, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature meravigliose, eseguite dai più valenti artisti non solo del Siam bensì anche della Cina.

      Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue Cinesi, e nel quale si trovava il trono a forma di altare, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.

      Lakon-tay si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e della regina.

      Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere.

      Salì col cuore trepidante la scala di marmo, appoggiandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, varcò la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che gli aveva presentato l’archibugio, e forse senza nemmeno vederlo.

      Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi numerosi braccialetti d’oro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami d’argento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.

      «Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo.

      «È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione francese e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi.»

      «Va’ a dirgli che mi urge vederlo.»

      «Lakon-tay è sempre gradito a Sua Maestà… Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato.»

      «Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.

      «Il S’hen-mheng?…»

      «Morto…»

      Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, come se temesse al pari degli altri di venir coinvolto nella disgrazia che stava per piombare sul povero ministro.

      Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re.

      «Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Lakon-tay. «Ieri erano vili servi, ora che sto per perdere la mia carica e forse la vita, sono tanti principi.»

      S’appoggiò a una delle colonne, fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.

      Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.

      Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.

      Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut, re del Siam, era ancora un bell’uomo, quantunque di età già matura, dalla pelle un po’ abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Indocina.

      Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.

      Sandet-Pra-Paramindr-Maha, suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece a fare pompa dell’abito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo, faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua strana forma.

      Phra-Bard aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide d’oro massiccio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di diamanti e di rubini, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine d’oro, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce… che avrebbero potuto far felice una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.

      Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette S’hen-mheng, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra.

      Lakon-tay, facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:

      «Se mi credi colpevole, o mio re, uccidimi: sei nel tuo diritto.»

      Phra-Bard rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che non prometteva nulla di buono.

      Ad un tratto la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.

      «Sei un miserabile!» gridò il re. «Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo l’uomo più atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»

      «Giacché tu, o mio re, mi credi colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo tical, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei S’hen-mheng, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.

      Che colpa ho io se qualcuno, che non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti bianchi?»

      «Credi, con questa stolta accusa, di stornare da te la mia collera?» chiese il re.

      «Lakon-tay ti ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più giovane?»

      Phra-Bard, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.

      «Tu hai un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.

      «La morte dei S’hen-mheng, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.

      «E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui S’hen-mheng? Dove trovare nel mio regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Sommona Kodom?»

      «E se quell’uomo fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Lakon-tay, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.

      «Uno straniero!» esclamò Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.

      «Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom.»

      «E i miei S’hen-mheng,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca.» Il mio vicino, il re di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva proposto, СКАЧАТЬ