Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8. Edward Gibbon
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СКАЧАТЬ crescente, che ritardava l'esecuzione dei suoi vasti disegni, il giusto Nushirvan avea segretamente dato ordine che si uccidesse il Re dei Lazi, si trapiantasse quel popolo in qualche lontana contrada, e si stabilisse una fedele e guerriera colonia sopra le rive dei Fasi. La vigilante gelosia dei Colchi antevide ed allontanò la rovina, vicina a piombare. La prudenza, anzi che la clemenza di Giustiniano accettò in Costantinopoli il lor pentimento, ed egli ordinò a Dagisteo che con settemila Romani, ed un migliajo di guerrieri Zani cacciasse via i Persiani dalla costa del mare Eussino.

      L'assedio di Petra a cui il Generale romano, coll'ajuto dei Lazi, immantinente si accinse, è una delle più notabili imprese di quei tempi. Sedeva la città sopra una rupe scoscesa, la quale pendea sopra il mare e non comunicava colla terra eccetto per mezzo di un arduo ed angusto sentiero. Difficile essendone l'approccio, poteva credersene impossibil l'attacco. Il conquistatore persiano aveva aggiunto nuove opere alle fortificazioni di Giustiniano, e nuovi baluardi cuoprivano i luoghi meno inaccessibili. In questa importante rocca la vigilanza di Cosroe avea raccolto un magazzino di arme offensive e difensive, il qual era sufficiente ad armare cinque volte il numero, non solo degli assaliti ma anche degli stessi assalitori. Le provigioni di farina e di sale erano in tale abbondanza da fornire al consumo di cinque anni; si suppliva alla mancanza del vino mediante l'aceto ed il grano da cui si traeva una spiritosa bevanda: ed un triplice acquedotto eludeva la diligenza, anzi i sospetti pure dell'inimico. Ma la più ferma difesa di Petra era posta nel valore di mille cinquecento Persiani che respingevano gli assalti dei Romani; allorchè fu segretamente praticata una mina dentro una vena più cedente di terra. Le mura, sostenute da deboli e temporanei puntelli, pendevano vacillanti nell'aria; ma Dagisteo differì l'ultimo attacco sinchè non si fosse assicurata una specifica ricompensa; e la città venne soccorsa, prima che il suo messo fosse ritornato da Costantinopoli. A quattrocento uomini era ridotta la guarnigione persiana, dei quali non più di cinquanta andavano esenti da malattie o da ferite: eppure a tale era giunta l'inflessibile loro perseveranza che nascosero le loro perdite all'inimico, col sopportare, senza lagnarsi, la vista ed il putrido fetor de' cadaveri dei loro mille e cento compagni. Appena liberata fu Petra, sollecitamente si saldarono le brecce con sacchi di sabbia; si colmò di terra la mina e si eresse un nuovo muro, puntellato fortemente con pali; ed un fresco presidio di tremila uomini si ridusse nella fortezza a sostenere i travagli di un secondo assedio. Con abile ostinazione furono condotte le operazioni, sì dell'attacco che della difesa; e tanto una parte quanto l'altra trasse partito dall'esperienza de' suoi errori passati. S'inventò un ariete di costruzione leggiera e di poderoso effetto il quale veniva trasportato e messo in opera dalle mani di quaranta soldati, e a misura che le pietre de' bastioni si mostravano scosse dai replicati suoi colpi, gli assedianti ne le staccavano con lunghi uncini di ferro. Dall'alto di quelle mura pioveva un nembo di dardi sul capo degli assalitori, ma più pericolosamente essi venivano tribolati da un'accendevole composizione di zolfo e bitume, la quale, nel Colco, si potea con qualche proprietà denominare l'olio di Medea. Di seimila Romani che salirono alla scalata, il primo di tutti fu Bessa, lor generale, prode veterano, in età di settant'anni: il coraggio di questo condottiero, la caduta e l'estremo pericolo di lui animarono l'irresistibile sforzo delle sue truppe, ed il prevalente lor numero soverchiò la forza, senza domare l'intrepidezza della guarnigione persiana. La sorte di questi valorosi guerrieri merita di essere più distintamente ricordata. Settecento di loro eran periti durante l'assedio, duemila trecento sopravvivevano a difender la breccia. Di questi, mille e settanta furono distrutti dal fuoco e dal ferro nell'ultimo assalto, settecento trenta caddero prigionieri, ma diciotto solo erano tra loro che non portassero i segni di onorate ferite. Gli altri cinquecento si rifuggirono nella cittadella, che essi tennero senza speranza alcuna di soccorso, e rigettando i più lusinghieri patti di capitolare e di prender nuovo servizio, finchè dalle fiamme non furono consumati. Essi perirono in obbedienza ai comandi del loro Principe; e tali esempi di lealtà e di valore potevano eccitare i loro compatriotti a geste di egual disperazione e di esito più fortunato. La subitanea demolizione delle fortificazioni di Petra pose in chiaro lo stupore e le apprensioni del conquistatore.

      Uno Spartano avrebbe lodato e compianto la virtù di questi eroi schiavi: ma le tediose ostilità e gli alterni successi delle armi romane o persiane non possono trattenere l'attenzione della posterità ai piedi del monte Caucaso. Più frequenti e più splendidi vantaggi riportarono le truppe di Giustiniano; ma le forze del Gran Re del continuo crescevano, finchè montarono ad otto elefanti, ed a settantamila uomini, compresovi dodicimila alleati Sciti, e più di tremila Dilemiti, che per propria scelta discesero dalle rupi dell'Ircania, ed egualmente formidabili si mostravano nel combatter da lungi o da presso. I Persiani levarono, con qualche perdita e precipitazione, l'assedio di Archeopoli, nome imposto dai Greci, ovvero da essi corrotto; ma occuparono i passi dell'Iberia e signoreggiarono tutto il Colco coi forti e coi presidj loro: essi divorarono gli scarsi viveri del popolo; ed il Principe de' Lazi fuggì nel mezzo dei monti. La fede e la disciplina erano incogniti nomi nel campo romano; e gl'indipendenti condottieri, investiti di ugual potere, si contendevano fra loro la preminenza del vizio e della corruzione. I Persiani obbedivano, senza muovere accento, ai comandi di un solo Capo, il quale implicitamente si atteneva alle istruzioni del loro supremo Signore. Segnalato era il loro Generale tra gli eroi dell'Oriente per la sua sapienza in consiglio, ed il suo valore nel campo. L'attempata età di Mermeroe, la stroppiatura de' suoi piedi scemar non poterono l'attività del suo spirito, od anche del suo corpo; e nell'atto che lo portavano in lettiga sulla fronte della battaglia, terrore egli inspirava al nemico, e giusta fidanza alle truppe che sempre erano fortunate sotto le sue bandiere. Dopo la morte di lui, il comando passò a Nacoragan, satrapa orgoglioso, il quale in una conferenza coi Capitani imperiali, giunse alla baldanza di dichiarare ch'egli disponeva della vittoria come dell'anello che portava nel dito. Un presumer siffatto fu la natural cagione ed il precursore di una vergognosa sconfitta. I Romani a poco a poco erano stati respinti sino al lido del mare; e l'ultimo lor campo, posto sulle rovine della colonia greca del Fasi, era difeso per ogni verso da forti trincee, dal fiume, dall'Eussino e da una quantità di galere. La disperazione unì i consiglj, e rinvigorì le armi loro: essi fecero fronte all'assalto dei Persiani; e la fuga di Nacoragan precedè o seguì la strage di diecimila de' suoi più valorosi soldati. Egli fuggì dai Romani per cader negli artigli di un Sovrano non avvezzo a perdonare, il quale severamente punì l'errore della propria sua scelta. Lo sventurato Generale fu scorticato vivo, e la sua pelle imbottita e foggiata a forma umana fu esposta sulla cima di un monte, qual tremendo avviso per quelli a' quali la fama e la fortuna della Persia venissero di quindi innanzi affidate86. Con tutto ciò la prudenza di Cosroe insensibilmente cessò dal continuare la guerra colchica, giustamente persuaso esser impossibil cosa il soggiogare o per meno il tenere nell'obbedienza una lontana contrada, in opposizione ai desiderj ed agli sforzi degli abitatori di essa. La fedeltà di Gubaze sostenne il più rigoroso cimento. Con pazienza egli sopportò i travagli di una vita selvaggia, e con disdegno rigettò gli speciosi allettativi della Corte persiana. Il Re dei Lazi era stato educato nella religione cristiana; la sua madre era figlia di un Senatore; durante la sua giovinezza egli avea servito per dieci anni in qualità di silenziario nella Reggia di Bisanzio87, e gli arretrati di un non pagato stipendio erano per lui un motivo di fedeltà nel tempo stesso e di lagnanza. Ma il lungo durar de' suoi mali gli trasse finalmente di bocca un ignuda esposizione del vero; ed il vero era un'accusa da non perdonarsi contro i Luogotenenti di Giustiniano, i quali, in mezzo agli indugi di una rovinosa guerra avevano risparmiato i nemici, e calpestato gli alleati del loro Sovrano. Le maligne riferte loro posero nell'animo all'Imperatore che il suo vassallo meditasse di mancargli una seconda volta di fede: si sorprese un ordine di mandarlo prigioniero a Costantinopoli, e s'inserì una proditoria clausola ch'egli potesse legittimamente essere ucciso in caso di resistenza; laonde Gubaze, senz'armi e senza sospetti di pericolo, fu trucidato nella sicurezza di un abboccamento amichevole. Nei primi momenti dello sdegno e della disperazione, i Colchi avrebbero sacrificato la patria e la religione loro al piacere di conseguire vendetta. Ma l'autorità ed eloquenza dei pochi più saggi ottenne una salutar dilazione: la vittoria del Fasi ristabilì il terrore delle armi romane, e l'Imperatore si recò a premura di assolvere il proprio nome dall'imputazione di un sì nero assassinio. Ad un giudice di grado senatorio fu commesso di far indagini intorno alla condotta ed alla morte del Re dei Lazi. Egli salì sopra un tribunal maestoso, circondato dai ministri della СКАЧАТЬ



<p>86</p>

Il supplizio di scorticare un uomo vivo non potè esser introdotto in Persia da Sapore (Brisson, de Regn. Pers. l. 2, p. 578), nè copiato dalla insulsa storiella di Marsia, suonatore di Frigia, più insulsamente citata, come esempio, da Agatia (l. 4 p. 132, 133).

<p>87</p>

Nel palazzo di Costantinopoli v'erano trenta silenziarj, che si chiamavano hastati ante fores cubiculi, της σιγης επισαται, onorevol titolo, che conferiva il grado di Senatore, senza imporne i doveri (Cod. Teodos. l. 6 tit. 23. Coment. del Gotofred. t. 2 p. 129).