Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo
Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo страница 5

Название: Mezzo secolo di patriotismo

Автор: Bonfadini Romualdo

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

Серия:

isbn:

isbn:

СКАЧАТЬ nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.

      Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere più tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco “di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari4.„ Non era vero. Nessuno più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Più tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Così fu imprigionato, sbandito, richiamato.

      Non era però il Melzi tal uomo che dello sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli; e, come addetto ai Comitati di governo, come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere di Bonaparte a Mombello, come inviato a Parigi, come promotore e ordinatore della Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione degli interessi e della dignità del paese, ben presto riebbe quella fiducia e quella stima che i suoi concittadini non gli ritolsero poi per tutta la vita. Tanto è vero che popolarità durevole ed unicamente apprezzabile non si acquista col blandire ogni traviamento di moltitudini, per istrapparne un facile applauso, ma coll'uniformare sempre la propria condotta ai dettami di quella onesta coscienza, la quale allora solo è fallace quando s'impaurisce o si fiacca per biasimi non meritati.

      Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio 1802 entrava in Milano, per assumere, con istituzioni nuove, le redini di uno Stato, in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto; indispettita della larva di governo cattivo che possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore; incerta fino agli ultimi giorni se dalla Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune o delusioni.

      “Quel contino se la caverà con onore„ aveva scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina di Melzi a Vice-presidente. Ed era, più che il pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio suo non si volgeva ad uno spagnuolo, nè ad un francese, nè ad un tedesco, nè ad un russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva più come capo, come guida politica di una così grossa e bella compagine di popolazioni italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva rialzato nella sua dignità e si aprivano gli animi a speranze maggiori di maggiori compagini.

      L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato rinnovamento.

      La Costituzione di Lione, firmata da Bonaparte, da Melzi, da Marescalchi e da Guicciardi5, si deponeva nell'Archivio pubblico, dove tuttora si trova. Andrea Appiani aveva disegnato una medaglia, il Manfredini ne incideva un'altra, Ugo Foscolo pubblicava la sua veemente Orazione a Bonaparte, Vincenzo Monti cantava le lodi del nuovo magistrato e lo chiamava

      il mio Melzi, a cui rivola

      Della patria il desío.

      E il Melzi, serio e severo, perchè preoccupato della grave responsabilità, entrava da Porta Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita da brillante accompagnamento di magistrati, di militari, di popolo. Il generale Pino era nella carrozza con lui; il generale Murat era corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore; nell'ultimo posto, ed obliato da tutti, chiudeva umilmente il corteggio – rappresentanza viva delle ironie della sorte – quel generale Despinoy, che sei anni prima aveva trattato i milanesi con tanta impertinenza e che aveva fatto arrestare, con brutalità soldatesca, Francesco Melzi.

      Qui comincia il periodo dell'attività politica e della responsabilità per l'uomo insigne che s'era fino allora mantenuto nei più facili confini del consiglio e della censura. E non è piccola lode sua, non è prova leggiera delle sue alte qualità di Stato il poter dire che Melzi uscì con intatta, anzi con cresciuta riputazione, da questo periodo, che è sempre così pericoloso e spesso così fatale per le ambizioni politiche.

      Non ci è dato poter qui giustificare questa asserzione. Per essere fedeli alle necessità ed alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo respingere da tutte le parti argomenti e fatti che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo chiudere gli occhi por non vedere il periodo, per dimenticare la moltiplicità degli ostacoli vinti, delle riforme cominciate, delle leggi votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere alla tentazione di uscire dall'atmosfera dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed è qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza del metodo che ci siamo imposti: è quì che dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola sarà impotente a condensare in un capitolo la materia di un libro e se a questa irta contraddizione fra lo spazio e l'intento ciascuno di essi crederà sacrificate quelle speciali rimembranze e quelle glorie speciali, – militari, legislative, edilizie, – onde s'è composta fra noi la ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione italiana.

      A questa ha presieduto per più di tre anni Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni pubblica azienda quel concetto alto e morale che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti, e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni che i nove anni successivi del Regno italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.

      Il governo di Melzi fu veramente un complesso di uomini, rispettabili nella vita privata, capaci nella vita pubblica, pieni di zelo e di attività salutare. Bonaparte gli aveva dato fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi, Gran Giudice, magistrato di severa dottrina e d'incorruttibile probità, e Diego Guicciardi, Segretario di Stato, amministratore sagace e ricco di espedienti, che delle persone e delle cose lombarde aveva conoscenza profonda e precisa.

      Intorno a questo nucleo raccolse presto il Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno; e si ajutò di Carlo Verri e del Villa per gli affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze, di Bovara e di Giudici per gli affari del culto; all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni venne allora e durò poi lunghi anni quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione furono compiute così gigantesche opere stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri, fra cui la nostra generazione non può dimenticare Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.

      Soprattutto al concetto morale badava il Melzi, e faceva convergere a rialzarlo tutti i suoi discorsi e l'opera sua. “L'uomo libero„ scriveva al parroco di Magenta “non è che l'uomo probo.„ E pubblicava, dover sopravvivere a tutte le divisioni passate quella sola che ponesse un muro di bronzo fra gli uomini onesti e quelli che non lo sono.

      Gli erano dunque fieramente avversi tutti quegli elementi equivoci, che nel primo triennio e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto sulle finanze pubbliche così turpi speculazioni. Il Sommariva, congedato con severa frase dal Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo. Aveva tentato perfino di mettere contro di lui l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole offrire dal suo complice Formiggini una collana del valore d'un milione. Giuseppina, onestissima malgrado la sua vanità, respinse il dono, che sotto altre apparenze poteva ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta e il cardinale di Rohan. Ebbe minori scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne la provenienza, un orologio a brillanti del valore di ottantamila lire.

      Questo intrigo poteva essere tanto più pericoloso in quanto s'ajutava di tutte le ostilità, segrete o palesi, a cui la politica schiettamente italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte, che attribuiva all'opposizione sua di non essere Presidente della СКАЧАТЬ



<p>4</p>

Termometro politico, anno 1796.

<p>5</p>

Ha la data del 26 gennajo 1802, anno I.º