Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!. Beltramelli Antonio
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СКАЧАТЬ dalle vesti e dalle carni di Giacometta; un profumo di cui non sapevo il nome, del quale non avevo anteriore ricordo; ma che mi dava un'ebbrezza improvvisa, una perduta volontà di carezze e di abbandono. Ne ero come ubbriaco. Mi pareva che, sotto quell'eccitante invito, avrei potuto dire o fare le più belle e le più grandi cose; ma, come sempre sciaguratamente mi accadeva, all'interiore possibilità non rispondeva l'animo e la parola, tanto che dissi con pedestre malinconia:

      – Come sapete di buono, Giacometta!

      Ella non rispose e non mi guardò. Stava appoggiata, le spalle e la nuca, allo stipite di una grande porta e aveva gli occhi all'aria, e tutto il suo piccolo volto soave, veduto così di scorcio, pareva cento volte più bello. Notai come il naso le si affilasse ancor più, come accade nello spasimo del piacere; e le pinne sottili si inarcavano un poco nel respiro breve ed intermesso.

      Si lasciò prendere una mano e non disse niente; ma stava come se fosse morta. Io sentivo, fra le mie mani che ardevano, la sua piccola mano abbandonata e la guardavo, inebetito dalla troppo grande emozione.

      – Giacometta… – mormorai. – Tu sapessi… tu sapessi…

      Ella, senza muoversi, ebbe un sorriso vago e sperduto; sorrise con l'aria, con le stelle e con il suo indecifrabile enigma. Ed io mi domandavo: – «Che farò?.. E se ardisco, che farà?.. Sarà la fine di tutto o lascierà fare guardando da un altra parte?.. Perchè non mi risponde?.. Perchè non vuole accorgersi che io, povero giovane, non sono di cemento armato?.. Perchè non mi incoraggia?..

      Finalmente le baciai una mano, poi il polso, poi le accarezzai il braccio ignudo sotto la veste leggera; poi, come la vidi arrossire e abbrividire, la strinsi alla cintola… ed ella sorrideva, sorrideva sempre, le iridi più grandi e fonde, la bocca più rossa e dischiusa, la gola più bianca e scoperta, una gola tanto tersa e amorosa e viva da dar le rosse vertigini al più bianco fra i candidi e morali idealisti.

      E, come avviene agli imbecilli par miei, io uomo timido e d'improvviso predace, non ebbi il garbo di saper cogliere quel dolce frutto senza turbare la palese e volontaria assenza della mia fidanzata; anzi, sorpreso da una grandissima sete, da un annebbiamento improvviso, da un fuoco che mi fucinava il sangue in un tumulto indiavolato, mi gettai su quel candore: avido, cieco, sitibondo, disfatto. E appena ebbi tempo di assaporarne la freschezza che Giacometta, scostatasi violentemente, mi disse in tono acerbo, come una nemica:

      – Siete sciocco e volgare!.. Andate via!..

      Poi, nello stesso tempo, quasi tutto ciò non fosse bastato, udii giungere dal fondo del giardino il domestico stridere della mia zia formidabile, la quale urlava su tutti i toni…

      – Checco?.. Checco?.. Checco… Checcoooo?..

      E allora fuggii vergognoso, disperato, in compiuta rovina pensando seriamente a un placido suicidio.

      VI

      Iddio ti dette i parenti perchè tu imparassi a guardartene.

      Si parla della formazione dei mondi nella spaventosa immensità del niente e ci si perde dietro gli spettri delle nebulose, quando lo stesso mistero è sotto agli occhi nostri, tanto è vero che tutto si riproduce uguale, nella spaventosa immensità del niente.

      Quale differenza, vi prego amici miei, quale differenza vi poteva essere, ditemelo, fra Giacometta e la nebulosa della costellazione dei Cani da caccia o la nebulosa planetaria della Lira? Nessuna! Io ero un innamorato al telescopio, il quale vede passare, nella tenebra dell'immenso, una forma che non potrà mai comprendere nè raggiungere. Ero il povero astronomo di Giacometta, ma senza il prezioso sussidio di spettroscopi o di calcoli sublimi. Perchè in amore, ahimè, non è stato ancora inventato uno spettroscopio e l'anima di una nebulosa fanciulla non può decomporsi come la luce di una qualsiasi ragionevole stella. Così navigavo nell'inconoscibile e non potevo servirmi che della più infida fra tutte le bussole del mondo e cioè del mio amore.

      Quella sera pertanto, dopo il tumultuoso pomeriggio, pieno l'animo delle più dolci e più amare sensazioni, non appena ebbi varcato l'uscio della mia su non lodata casa, ecco che vidi venirmi incontro, tutta arruffata e torva, la mia formidabile zia, signora Adalgisa.

      Io, giovane taciturno e remissivo per consuetudine, di fronte alla vampata affocante che si chiamava signora Adalgisa, quella sera, o fosse per la troppo lunga ed intensa emozione patita, o che so io per quale altro disequilibrio psicologico, non attesi che l'impeto, il quale già si apprestava a travolgermi, mi investisse e con voce aspra affrontai il mio consanguineo tormento e dissi:

      – Non importa mi secchiate, zia Adalgisa! Vi avverto che oggi non ne ho voglia e non ho punta pazienza!

      La cosa inusitata fece spalancare alla mia belva domestica due enormi e sbalorditi occhi; e la bocca, già aperta al torrente degli improperi, non trovò parole per esser riempita, ma appena si mosse per mormorare:

      – Diventi matto?

      Approfittai dell'indecisione di lei per aggiungere:

      – Sono stanco. Lasciatemi tranquillo, altrimenti può succedere qualche brutto guaio.

      E infilato il corridoio, passai sotto i lumi esterrefatti della zia, per chiudermi a doppia mandata nella mia soffitta. Ivi giunto non pensai nè ad accender la candela di sego che mi passava il convento, nè a chiuder la finestra: mi gettai sul letto affondando subito in un addolorato smarrimento. Ma la mia quiete fu di brevi istanti, chè, dopo qualche secondo, eccoti picchiare all'uscio e una voce imperiosa comandare:

      – Aprite!

      Non risposi.

      – Secondo me – pensai – tu puoi bussare fino a domani, bell'arnese!

      – Aprite, dico!.. vi farò vedere di che cosa sono capace!..

      Uguale silenzio.

      – Checco, non mi sentite?

      Ma mi chiamavo Franzi, quella sera.

      – Checco, non fatemi perdere l'ultima pazienza!..

      E grugniva, e tempestava, e borbottava sempre con egual risultato. Vuotò il sacco degli improperi; mi chiamò carogna, bastardo; ebbe per me cento altre delicate attenzioni e finalmente tacque e mi parve si allontanasse. Ma se Giacometta era una nebulosa, la zia Adalgisa era una meteora ed io, sventurato giovine, dovevo trovarmi sempre fra codesti indecifrabili fenomeni.

      Allorchè credevo aver guadagnata la quiete, ecco ritornare il domestico castigo, e, questa volta, con una voce di grandissimo pianto e tale che mi avrebbe mosso al riso, se non avessi avuto ben altro per il capo.

      – Checco, perchè tratti così tua zia?.. E pensare che non ho mangiato per aspettarti!.. E pensare che ti ho cercato per tutta la città!.. Che ti hanno detto i Maldi, dopo la caduta?.. Ti sei fatto male, figliuolo mio?.. Che cosa hai fatto dai Maldi fino a quest'ora?.. Checco?.. Rispondi alla tua povera zia che non vive che per te!..

      Ora io sono stato sempre buono, buono… talmente buono da farmi schifo! E che ci posso fare? Finii per impietosirmi.

      Quel piagnucolìo interminabile, unito agli occhi di Salsiccia, ch'io vidi d'improvviso folgorare nel buio della stanza, mi vinsero.

      Forse neppure Salsiccia aveva mangiato dopo lo scandalo in cima al muro dei gelsomini… forse, povero gatto, egli, inconsapevolmente, mi aveva fatto promettere la famosa ghirlandella…

      Ahi, Giacometta! Io СКАЧАТЬ