La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке. Данте Алигьери
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СКАЧАТЬ «Malizioso son io troppo,

      quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia».

      112 Alichin non si tenne e, di rintoppo

      a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,

      io non ti verrò dietro di gualoppo,

      115 ma batterò sovra la pece l’ali.

      Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,

      a veder se tu sol più di noi vali».

      118 O tu che leggi, udirai nuovo ludo:

      ciascun da l’altra costa li occhi volse,

      quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.

      121 Lo Navarrese ben suo tempo colse;

      fermò le piante a terra, e in un punto

      saltò e dal proposto lor si sciolse.

      124 Di che ciascun di colpa fu compunto,

      ma quei più che cagion fu del difetto;

      però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».

      127 Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto

      non potero avanzar; quelli andò sotto,

      e quei drizzò volando suso il petto:

      130 non altrimenti l’anitra di botto,

      quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,

      ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

      133 Irato Calcabrina de la buffa,

      volando dietro li tenne, invaghito

      che quei campasse per aver la zuffa;

      136 e come ’l barattier fu disparito,

      così volse li artigli al suo compagno,

      e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.

      139 Ma l’altro fu bene sparvier grifagno

      ad artigliar ben lui, e amendue

      cadder nel mezzo del bogliente stagno.

      142 Lo caldo sghermitor subito fue;

      ma però di levarsi era niente,

      sì avieno inviscate l’ali sue.

      145 Barbariccia, con li altri suoi dolente,

      quattro ne fé volar da l’altra costa

      con tutt’ i raffi, e assai prestamente

      148 di qua, di là discesero a la posta;

      porser li uncini verso li ’mpaniati,

      ch’eran già cotti dentro da la crosta.

      151 E noi lasciammo lor così ’mpacciati.

      Canto XXIII

      Taciti, soli, sanza compagnia

      n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,

      come frati minor vanno per via.

      4 Vòlt’ era in su la favola d’Isopo

      lo mio pensier per la presente rissa,

      dov’ el parlò de la rana e del topo;

      7 ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’

      che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia

      principio e fine con la mente fissa.

      10 E come l’un pensier de l’altro scoppia,

      così nacque di quello un altro poi,

      che la prima paura mi fé doppia.

      13 Io pensava così: «Questi per noi

      sono scherniti con danno e con beffa

      sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

      16 Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,

      ei ne verranno dietro più crudeli

      che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa».

      19 Già mi sentia tutti arricciar li peli

      de la paura e stava in dietro intento,

      quand’ io dissi: «Maestro, se non celi

      22 te e me tostamente, i’ ho pavento

      d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;

      io li ’magino sì, che già li sento».

      25 E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,

      l’imagine di fuor tua non trarrei

      più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.

      28 Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,

      con simile atto e con simile faccia,

      sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

      31 S’elli è che sì la destra costa giaccia,

      che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,

      noi fuggirem l’imaginata caccia».

      34 Già non compié di tal consiglio rendere,

      ch’io li vidi venir con l’ali tese

      non molto lungi, per volerne prendere.

      37 Lo duca mio di sùbito mi prese,

      come la madre ch’al romore è desta

      e vede presso a sé le fiamme accese,

      40 che prende il figlio e fugge e non s’arresta,

      avendo più di lui che di sé cura,

      tanto che solo una camiscia vesta;

      43 e giù dal collo de la ripa dura

      supin si diede a la pendente roccia,

      che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

      46 Non corse mai sì tosto acqua per doccia

      a volger ruota di molin terragno,

      quand’ ella più verso le pale approccia,

      49 come ’l maestro mio per quel vivagno,

      portandosene me sovra ’l suo petto,

      come suo figlio, non come compagno.

      52 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto

      del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle

      sovresso noi; ma non lì era sospetto:

      55 ché l’alta provedenza che lor volle

      porre ministri de la fossa quinta,

      poder di partirs’ indi a tutti tolle.

      58 Là giù trovammo una gente dipinta

      che giva intorno assai con lenti passi,

      piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

      61 Elli avean cappe con cappucci bassi

      dinanzi a li occhi, fatte de la taglia

      che in Clugnì per li monaci fassi.

      64 Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;

      ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,

      che Federigo le mettea di paglia.

      67 Oh in etterno faticoso manto!

      Noi ci volgemmo ancor pur a man manca

      con loro insieme, intenti al tristo pianto;

      70 ma per lo peso quella gente stanca

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