La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке. Данте Алигьери
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СКАЧАТЬ I’ m’assettai in su quelle spallacce;

      sì volli dir, ma la voce non venne

      com’ io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.

      94 Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne

      ad altro forse, tosto ch’i’ montai

      con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

      97 e disse: «Gerion, moviti omai:

      le rote larghe, e lo scender sia poco;

      pensa la nova soma che tu hai».

      100 Come la navicella esce di loco

      in dietro in dietro, sì quindi si tolse;

      e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

      103 là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,

      e quella tesa, come anguilla, mosse,

      e con le branche l’aere a sé raccolse.

      106 Maggior paura non credo che fosse

      quando Fetonte abbandonò li freni,

      per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;

      109 né quando Icaro misero le reni

      sentì spennar per la scaldata cera,

      gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

      112 che fu la mia, quando vidi ch’i’ era

      ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta

      ogne veduta fuor che de la fera.

      115 Ella sen va notando lenta lenta;

      rota e discende, ma non me n’accorgo

      se non che al viso e di sotto mi venta.

      118 Io sentia già da la man destra il gorgo

      far sotto noi un orribile scroscio,

      per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.

      121 Allor fu’ io più timido a lo scoscio,

      però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;

      ond’ io tremando tutto mi raccoscio.

      124 E vidi poi, ché nol vedea davanti,

      lo scendere e ’l girar per li gran mali

      che s’appressavan da diversi canti.

      127 Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,

      che sanza veder logoro o uccello

      fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

      130 discende lasso onde si move isnello,

      per cento rote, e da lunge si pone

      dal suo maestro, disdegnoso e fello;

      133 così ne puose al fondo Gerione

      al piè al piè de la stagliata rocca,

      e, discarcate le nostre persone,

      136 si dileguò come da corda cocca.

      Canto XVIII

      Luogo è in inferno detto Malebolge,

      tutto di pietra di color ferrigno,

      come la cerchia che dintorno il volge.

      4 Nel dritto mezzo del campo maligno

      vaneggia un pozzo assai largo e profondo,

      di cui suo loco dicerò l’ordigno.

      7 Quel cinghio che rimane adunque è tondo

      tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,

      e ha distinto in dieci valli il fondo.

      10 Quale, dove per guardia de le mura

      più e più fossi cingon li castelli,

      la parte dove son rende figura,

      13 tale imagine quivi facean quelli;

      e come a tai fortezze da’ lor sogli

      a la ripa di fuor son ponticelli,

      16 così da imo de la roccia scogli

      movien che ricidien li argini e ’ fossi

      infino al pozzo che i tronca e raccogli.

      19 In questo luogo, de la schiena scossi

      di Gerion, trovammoci; e ’l poeta

      tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

      22 A la man destra vidi nova pieta,

      novo tormento e novi frustatori,

      di che la prima bolgia era repleta.

      25 Nel fondo erano ignudi i peccatori;

      dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,

      di là con noi, ma con passi maggiori,

      28 come i Roman per l’essercito molto,

      l’anno del giubileo, su per lo ponte

      hanno a passar la gente modo colto,

      31 che da l’un lato tutti hanno la fronte

      verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,

      da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

      34 Di qua, di là, su per lo sasso tetro

      vidi demon cornuti con gran ferze,

      che li battien crudelmente di retro.

      37 Ahi come facean lor levar le berze

      a le prime percosse! già nessuno

      le seconde aspettava né le terze.

      40 Mentr’ io andava, li occhi miei in uno

      furo scontrati; e io sì tosto dissi:

      «Già di veder costui non son digiuno».

      43 Per ch’io a figurarlo i piedi affissi;

      e ’l dolce duca meco si ristette,

      e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

      46 E quel frustato celar si credette

      bassando ’l viso; ma poco li valse,

      ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,

      49 se le fazion che porti non son false,

      Venedico se’ tu Caccianemico.

      Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

      52 Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;

      ma sforzami la tua chiara favella,

      che mi fa sovvenir del mondo antico.

      55 I’ fui colui che la Ghisolabella

      condussi a far la voglia del marchese,

      come che suoni la sconcia novella.

      58 E non pur io qui piango bolognese;

      anzi n’è questo loco tanto pieno,

      che tante lingue non son ora apprese

      61 a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno;

      e se di ciò vuoi fede o testimonio,

      rècati a mente il nostro avaro seno».

      64 Così parlando il percosse un demonio

      de la sua scuriada, e disse: «Via,

      ruffian! qui non son femmine da conio».

      67 I’ mi raggiunsi con la scorta mia;

      poscia con pochi passi divenimmo

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