Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi страница 42

Название: Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

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isbn: 4064066088026

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СКАЧАТЬ nonostante si ostinano, e forse può darsi, ma non lo credo, che a sciogliere la società pervengano; a riordinarla non mai.

      Non ragioniamo di siffatte dottrine che, con molta imprudenza e senno poco, vedo formare perpetuo argomento di qualche Giornale fra noi; certo per imitazione francese, come se noi avessimo comuni con Francia travagli e dolori. Torniamo a favellare delle forme del Governo.

      I dottori della Repubblica di leggieri concedono vera la sentenza del Montesquieu, che la Repubblica democratica si fondi sopra la virtù; ma aggiungono subito, ch'egli ha confuso la causa con lo effetto; la virtù dovere essere figlia, non madre di libertà; e questo diceva anche Alfieri: — però aspettare, per vendicarci in libertà, ad avere fatto procaccio, durante il servaggio, delle virtù necessarie per mantenerci liberi, torna lo stesso che condannarci a catena perpetua. Nè siffatto ragionamento è destituito di verità, se non che, invece di giovare alla conseguenza che ne deducono, le nuoce. Di vero, invece di precipitare la umanità a corsa, dove non le basteranno le piante, vediamo un po' se ci fosse verso d'incamminarla mano a mano verso il meglio: se fu cieca e brancolò per tenebre, perchè volere che duri cieca a brancolare per non sopportabile luce? Quando lo schiavo rompe la catena, la sua libertà appare vendetta e delirio;[150] l'adopera in usi pessimi, finalmente si spossa, e allora di leggieri è restituito al pristino stato.

      I governi costituzionali pertanto, purchè sinceri (e qui, secondo me, è dove giace nocco), si adattano meravigliosamente alle attuali condizioni della società, nè virtuose tutte, nè corrotte tutte, e piuttosto penzolanti di qua che di là; eglino somministrano forme abbastanza late, dove si può, senza scosse, camminare al meglio; impresa non superiore alle nostre spalle, e però non disperata; sistema nel quale capendo democrazia, aristocrazia e monarchia, l'azione popolare nel progredire vi si afforza con la pratica dei negozj pubblici, con le virtù, e soprattutto col diminuire l'amore per sè, ed estendere l'amore per la patria. In questo modo si evitano le cadute, più dure che non è soave il salire; quello che si acquista si mantiene; delle riforme sociali si promuove quel tanto che i costumi sono apparecchiati a ricevere. La umanità è corpo grave, disacconcia a moti repentini; e quando tu la costringi a saltare, corre rischio che si rompa le gambe o che affranta si accasci. Che qualcheduno la preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda i pericoli che le si parano sotto i piedi.

      Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie manifestate, si ebbero, senz'altro, rimprovero di mutata fede, e di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si biasimava Platone, se, avendo scritto il Trattato della Repubblica, si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il Libro della Utopia, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare la truce indole di quello.

      Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara, e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi?

      Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi (che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici, gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza; hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto, no; — se modifica il suo principio convenientemente, . Io, perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore, se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla mia vita.»[151]

      Nel decembre del 1847, scrivendo certe mie Memorie, m'indirizzava a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci dividono adesso: corrono anni ben lunghi che noi non ci mandiamo neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono. Tu inebriato di amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed onta alla dignità dell'uomo. Io, più provato alla dolorosa esperienza, quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura, mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla. Ed in questo ancora differivamo, che il bene divisavi imporre ai popoli repugnanti e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era ottimo.»[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, ma bene spesso berretto frigio; nè sempre muovono dai potenti, ma bene spesso dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla cieca ignoranza

      Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro Al Principe e al Popolo, di cui ho favellato altrove.

      Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.» — Ed io consento con quel santissimo petto.»[153]

      Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi, forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154]

      Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj, fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità, inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo al nascere dei СКАЧАТЬ