Название: L'Ombra Del Campanile
Автор: Stefano Vignaroli
Издательство: Tektime S.r.l.s.
Жанр: Историческая литература
isbn: 9788873044765
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Così dicendo aveva aperto un’antica cassapanca e aveva porto alla nipote un antico manoscritto, rivestito da una custodia di pelle nera su cui era inciso un pentacolo, una stella a cinque punte inscritta in un cerchio. Era il diario della famiglia, che veniva passato di madre in figlia, in questo caso da nonna a nipote, perché la mamma di Lucia era venuta a mancare quando lei era ancora in tenera età. Il diario in cui ogni strega riportava le sue esperienze, i sortilegi inventati, le guarigioni ottenute, le esperienze magiche che ognuna aveva avuto modo di sperimentare, in modo che la conoscenza e la sapienza aumentassero con il tempo. Lucia aveva capito che era ormai in grado di controllare tutti e quattro gli elementi quando, concentrandosi, era riuscita a far materializzare una sfera semifluida che fluttuava tra le sue mani unite a coppa, distaccandosi dai relativi palmi di pochissimo spazio. La sfera altro non era che il suo spirito, un miscuglio di colori che, roteando, in certi momenti si mescolavano tra loro a dare infinite tonalità, in altri si delineavano come se ogni elemento volesse riprendere la sua natura e staccarsi dagli altri. Riconosceva l’aria dal colore giallo, la terra dal colore verde, l’acqua dal colore azzurro e il fuoco dal colore rosso. Poteva ordinare a ognuno di quegli elementi di fare ciò che la sua mente desiderava, nel bene o nel male. Se, ad esempio, voleva utilizzare il fuoco, con il suo pensiero selezionava quell’elemento e dalla sfera poteva partire una palla di fuoco, più o meno grande a seconda delle esigenze. Accendere il fuoco nel braciere era la cosa più semplice del mondo: bastava che la legna fosse disposta per essere accesa, una piccola palla ignea veniva diretta da Lucia verso di essa e subito si aveva un bel falò scoppiettante. Ma quei poteri potevano anche essere pericolosi. Un giorno una ragazzina della sua stessa età, tale Elisabetta, l’aveva apostrofata per strada, deridendola perché aveva ormai compiuto quindici anni e nessun giovane aveva rivolto le sue attenzioni verso di lei.
«Dicono che sei una strega, nessun uomo ti vorrà, perché quelle come te fanno l’amore solo con il diavolo. Fatto sta che quello con cui vi accoppiate non è il diavolo, ma il caprone di Tonio, il contadino che ha le terre giù verso il fiume.»
Lucia le lanciò una palla di fuoco, così grande come non ne aveva mai realizzata una fino ad allora, e gli abiti e i capelli della malcapitata si incendiarono. Poi invocò l’aria, alzò le braccia sopra la testa e, con movimenti circolari delle stesse, diede origine a un vortice, che si staccò da lei in direzione dell’altra ragazza. Il vento alimentò ancor più le fiamme, Elisabetta sentì il dolore lancinante sulla sua pelle e iniziò a urlare. Allora Lucia si ricordò delle raccomandazioni della nonna ed ebbe pietà di quell’impertinente. Invocò l’acqua e fece scatenare un improvviso acquazzone, poi chiese alla terra che gli fornisse delle erbe per un impacco lenitivo da applicare sulle scottature della ragazza. Tutto sommato non era successo nulla di grave, la ragazza aveva solo la tunica mezza bruciacchiata e la pelle arrossata, ma non si erano formate neanche delle bolle. Avrebbe dovuto tagliare i capelli, che quelli che erano rimasti si erano increspati in maniera tale da farla assomigliare a un porcospino, ma poi questi sarebbero ricresciuti.
«Non metterti più sulla mia strada, la prossima volta potrei non riuscire a fermarmi.»
«Strega, ti denuncerò alle autorità. Sarai tu a finire bruciata viva. Sul rogo. Sulla pubblica piazza. E io starò a guardare mentre le fiamme ti consumeranno. Strega! Strega!»
Quelle parole le riportarono alla memoria l’esecuzione della strega Lodomilla, cui aveva assistito da bambina. Senza proferire altre parole e senza appellarsi di nuovo ai suoi poteri, Lucia si allontanò da quel luogo, sperando che l’eventuale racconto di Elisabetta non fosse stato preso sul serio e ritornò a casa, a Palazzo Baldeschi, un enorme fabbricato che si affacciava sulla Piazza del Mercato. Il palazzo era stato finito di ampliare da pochi anni, sulla base di una costruzione risalente a più di tre secoli prima, per volere di suo zio, il Cardinale Artemio Baldeschi, che era poi il fratello di sua nonna. La sontuosa dimora era ubicata tra la nuova chiesa di San Floriano e la Cattedrale. Quest’ultima era una stupenda chiesa in stile gotico, arricchita da bellissime guglie sulla facciata, dall’ampio interno a tre navate, capace di accogliere oltre duemila fedeli. Purtroppo era stata costruita sulla base del tempio di Giove e delle antiche Terme romane, senza che chi l’aveva a suo tempo edificata si fosse preoccupato troppo di fortificare le fondamenta. Per cui la costruzione era pericolante e si sarebbe dovuta abbattere per lasciare il posto a una nuova chiesa dedicata al patrono della città, San Settimio, le cui reliquie erano conservate nella cripta dell’antica cattedrale. Per ora, il Cardinale celebrava la Santa Messa ogni domenica nella chiesa di San Floriano, e aveva ottenuto anche che l’annesso convento, che doveva essere destinato ai frati dell’Ordine Domenicano, diventasse invece sede del Tribunale della Santa Inquisizione, essendo lui l’Inquisitore Capo. I Domenicani erano stati pertanto relegati in un convento più a valle, realizzato in una vecchia costruzione del dodicesimo secolo, in prossimità della chiesa di San Bernardo e del convento delle suore Clarisse della Valle.
A Lucia si strinse il cuore quando, dopo qualche giorno, fu convocata dallo zio Artemio nel suo studio, nell’altra ala del palazzo rispetto a quella abitata da lei e dalla sua nonna. Lo studio dello zio era una stanza enorme, arredata in maniera sfarzosa, le pareti arricchite da arazzi, il pavimento in parte ricoperto da un enorme tappeto. Un’intera parete era occupata da una libreria, contenente testi sacri e profani, manoscritti di pregevole fattura e alcuni testi stampati, tra cui una copia della Divina Commedia di Dante Alighieri, realizzata anni prima da Federico Conti nella sua stamperia jesina. Lucia avrebbe dato chissà cosa per poter consultare quei testi, ma le era stato sempre tassativamente proibito.
L’odore dei velluti che ricoprivano sedie e poltrone contribuivano a rendere l’aria della stanza pesante e irrespirabile, quasi al limite del soffocamento. Le finestre che si affacciavano sulla piazza permettevano al Cardinale di lanciare lo sguardo al cuore nevralgico della sua città, tenendo sotto controllo i suoi illustri concittadini, ma erano sempre chiuse in maniera ermetica, per impedire ai rumori della piazza e delle strade di disturbare la concentrazione del più alto prelato del luogo. La carica cardinalizia gli permetteva di poter essere al di sopra di ogni altro incarico politico, potendo impugnare anche qualsiasi decisione del Capitano del Popolo, che risiedeva nel non molto lontano Palazzo del Governo. Il potere conferitogli da Papa Alessandro VI, e confermatogli dai suoi successori, Pio III, Giulio II e Leone X, era infatti al tempo rispettato e temuto da tutte le altre autorità locali.
Il Cardinale offrì la mano inanellata alla nipote perché la baciasse, poi la invitò a sedersi in una delle imponenti seggiole disposte di fronte alla sua scrivania.
«Lucia, mia cara nipote, non sei più una bambina, ed è giunto il momento di trovare per te un uomo che sia un degno marito. Se nei tuoi pensieri non c’è nessun altro giovane, vorrei proporti il figlio del Capitano del Popolo, Andrea. Ha venti anni, è un bel giovane ed è bravo sia a cavalcare che a maneggiare le armi», si rivolse a lei, mentre puliva le lenti dei suoi occhiali di squisita fattura veneziana con un piccolo panno. In attesa che la giovane rispondesse, alitò di nuovo sulle lenti, le sfregò con il panno e quindi inforcò gli occhiali, СКАЧАТЬ