Название: Kali Yuga
Автор: Federico Pierlorenzi
Издательство: Tektime S.r.l.s.
Жанр: Драматургия
isbn: 9788873043942
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Es è in piedi e Biaco, che lo ha riconosciuto per primo, gli sta già baciando la mano sinistra «Eccellenza!».
Il metro e novantotto di vescovo appoggia l'enorme mano sulla spalla del ragazzo e gli occhi profondi nella sua anima «Sappiamo che sei un bravo ragazzo, ora prendi Unona e varcate la soglia». Con un sorriso ruota la testa e indica un lettino per neonati accanto alla porta del quale nessuno si era accorto prima. Con la mano destra serra la presa sulla maniglia.
Biaco supera l’uscio con le braccia appesantite e accoccolate al petto, sfiorando il prelato.
Blue è certo che la porta non è dove era prima, né tantomeno ha mai visto la culla o sentito un qualsivoglia vagito.
Es impalato davanti alla sua sedia «Eccellenza.».
«Muoviti figliolo, parleremo più tardi.». Punta la spalla contro la porta che sembra non voler rimanere aperta.
Blue ora è certo che la porta varcata da Biaco non era mai stata lì. La prima volta non la ricorda bene. Ma la seconda, all’ingresso di Es, era o alla sua sinistra o davanti a sé. E, anche se le sedie sono tutte comode uguali e può averle confuse anche per via del tavolo quadrato, all’ingresso di Biaco la porta era di fronte, visto che ha dovuto attraversarlo quel tavolo maledetto. Ed ora si è aperta sicuramente alla sua destra, sul lato dove si era seduto Biaco.
«Blue, muoviti». Le parole di Es suonano sempre più lontane.
«Figlioli, c’è un tempo per ogni cosa, ora è il tempo di andare». La voce trema e i denti si stringono nello sforzo di tenere la porta aperta.
Es guarda l’amico ancora seduto su quella sedia «Muovi il culo o raggiungerò il balcone della Titti per primo!».
Il ricordo risveglia Blue che si accorge di essere ancora seduto. Chiude gli occhi e fa un respiro profondo. Al riaprirli è in piedi e nel brevissimo istante in cui spalanca le palpebre gli sembra come di vedere delle figure mai viste prima che stanno cercando di chiudere la porta. Sagome umanoidi di sfumature bianche si accalcano contro la porta per chiuderla. Fissando lo sguardo Blue ne riconosce dettagli che compaiono e scompaiono a seconda di quanta attenzione pone su ogni singolo punto in cui guarda. Muscoli di braccia deformi che si ingrossano nello sforzo. Bava che sgocciola da labbra leporine e denti digrignanti. Dita tozze e irsute che penetrano la carne flaccida di altre creature nello sforzo della spinta.
«Blue». Es grida tendendogli la mano destra e tenendo la sinistra ben ancorata all’uscio.
Il tempo per Blue si dilata, tutto corre velocissimo attorno a lui. Sente come se qualcuno cercasse di trattenerlo lì senza poterlo toccare.
Sua Eccellenza il nonno di Pablo non ce la fa più. Punta anche l’altra mano contro la porta e il piede opposto sullo stipite. Il corpo è inclinato per reggere la pressione contraria. Cede un istante dopo che Blue si è aggrappato al braccio di Es e che quest’ultimo ha tratto entrambi all’esterno.
Sono fuori.
NIN
Il buio. Una goccia di rugiada si risveglia aggrappata ad un pelo. Proviene dalle tubature arrugginite di un palazzo di quasi cinquant’anni fa. Ed ora è lì, in sospeso su quel pelo della sua gamba. Attende di scivolare via, confondersi di nuovo, stavolta piano piano, nel tutto da cui proviene. Aggregandosi prima ad una sola sua simile. Poi assieme ad un’altra. E ad un’altra ancora. Fino a tornare come era. Non certo dove era.
A cosa crede un ateo? Crede nell’uomo? Nella fiducia? In se stesso? Nel semplice concetto di vita unica e univoca? Credere aiuta a vivere, a superare quei momenti in cui non hai ciò che desideri o semplicemente hai ciò che non desideri. In cosa credo io? Io non credo. In niente e in nessuno. Nella più totale e completa tristezza e razionalità, affido costantemente la mia fiducia in tutti per non doverla affidare completamente a qualcuno o qualcosa. Divido sapiente i pesi per non dovermi trovare un giorno a perdere tutto, in un istante, in un motivo o in un pretesto troppo labili e leggeri, volatili e inconcreti, assurdamente teorici per poter giustificare o semplicemente accettare la disfatta. La fine, la sconfitta, la perdita di ogni singolo momento felice passato, imbrattato ora dal vuoto che con infamia lascia. Tanti amici. Tanti amori. Tanto “distacco” dai più vicini per non soffrire. Per non perdere ogni singolo granello di effimera felicità che aiuta a sopportare il peso della sofferenza. Il peso della vita. Il peso. Vivere e soffrire ogni giorno pur di non soffrire mai più, di non vivere mai più. Non è facile sentirsi come eterni secondi nella corsa della vita in cui gareggi solo tu. Chi sta vincendo? Chi sta arrivando costantemente primo se di fronte a me non vedo neanche la coda del mio antagonista? Solo il vuoto, il nulla intorno. Avanti come dietro. E affianco una interminabile infinita lunga staffetta di tanto insinceri quanto momentanei sorrisi, che ti aiutano a superare la vita stessa giorno per giorno. Nulla è per sempre o forse tutto è per sempre. Un tutto fatto di nulla, di momenti, di vuoti e di ricordi addolciti dalla memoria così tenera e materna nei confronti di se stessa. Così troppo abituata a soffrire. Disinfettare le proprie ferite senza alcol, senza fuoco, senza vita. Ma con il solito putrescente palliativo che allevia dolore sofferenza e vita. Manca la forza il coraggio la fede ai quali appoggiarsi quando si ha bisogno di ricucire sadicamente gli squarci che la propria anima si è procurata strisciando e impigliandosi nella vita stessa. Nei dolori. La pazzia di credere. La pazzia. Di credere. Di credere e basta. In qualsivoglia essere o oggetto animatoinanimato che dia un senso a se stessi, alla propria vita, al proprio mondo di balocchi costruiti con amianto e fango. Cosa resta di sé. Dopo un interminabile cammino di vita? Bene o male? Bene e male, ricordi. Mendaci ricordi di vita. Palliativi per tirare avanti in progetti e programmi fini a se stessi. Fini alla mera riproduzione condannante individui che ancora non lo sono e non lo sanno. Una vita di fardelli e colori sbiaditi rimasterizzati in technicolor dall’astuta memoria. Che ci coccola e ci vezzeggia sapendo che altrimenti non saremmo mai disposti a proseguire questa folle corsa. Andare avanti con l’uomo che cerca l’uomo. Un’immagine di se stesso. Per resistere, per avere un doping nel tragitto, per trovare infine chi sta vincendo realmente la corsa. NON IO.
Mentire a se stessi e al mondo per resistere. O per paura di conoscersi veramente e sentirsi il peso di doversi comportare di conseguenza senza più poter nascondersi dietro le proprie autoillusioni di un mondo perfetto. O del migliore dei mondi possibili. La morte. La vita dell’uomo è la morte. La natura dell’uomo è la morte. L’uomo è morte. Ogni respiro è respiro di morte per me stesso e per gli altri che mi circondano con i loro cadaveri putrefatti di vita. Cosa mi spaventa della morte? Del non esserci più? Del non soffrire-gioire che perseguita le mie notti insonni e i miei giorni vacui? Nulla! La vita è morte e la morte è nulla! È non più soffrire, ridere, giocare, amare, gioire, pensare, respirare, odiare, deludere (sé e gli altri), insomma vivere... Acqua calda in arrivo al tavolo 3!
Mostrare i denti e gettare sale nelle proprie ferite. Allontanarsi da se stessi e dagli altri. Sentire il sangue scorrere sempre più forte. Sentire aumentare la velocità con la quale il cuore spreca ogni suo singolo unico battito di quelli già contati, preconfezionati da… da chi? Dalle parche? Da dio? Da me stesso? Sentire e sentirsi morire ad ogni rintocco ventricolare ogni volta che ami, che odi, che ridi, che piangi, che ti emozioni. Sentire la vita e la morte in un unico movimento oscillatorio dove tu sei e sai di essere.
Non ne ho più la forza.
Forse non l’ho mai avuta.
Difetto di fabbrica?