Название: In faccia al destino
Автор: Albertazzi Adolfo
Издательство: Public Domain
Жанр: Зарубежная классика
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– E l'asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?
– No, no! Il percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma… – sospirò.
– Calato il prezzo degli stracci?
Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.
– Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi…
Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a lungo. Quindi si sfogò:
– Le par poco, a lei, lavorar vent'anni, da casa a casa, a stentare il soldo? Consumare le gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per…
Io lo prevenni:
– Per aprir bottega!..
– Non è vita da cani questa?
A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l'ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un'ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz'aver avuto mai nè donna nè asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloria! la gloria!
Quanto all'asino…
Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l'asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:
– Solita vita, caro signore! – Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d'estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l'inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all'aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per ragioni sue intime, non meditate e non lamentate, delle asine in cui s'incontrasse: appena a primavera le salutava; ma d'un saluto fraterno, o d'un reciproco ingenuo poetico richiamo alla natura novella.
E poichè l'asino di Martino era anche utile al commercio e all'industria, forme e prove di progresso umano; poichè all'industria e al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo; poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma, secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l'asino, fra i tre il più sapiente era dunque l'asino e fra i tre il più asino ero dunque io!
Ridere?.. Ripensavo:
Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso, e seppi che non posso sapere…
Dall'asino, tutt'al più, posso apprendere che per vivere non importa sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!
– Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega…
Per me non c'era più alcuna fortuna, alcuna speranza!
Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!
Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti – mio padre e mia madre!.. – tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?
Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!
– Buona passeggiata! – Proseguivo per l'erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al passar del liquido e della frescura.
Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò con un forte: – Ah!.. – E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.
A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.
Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze – le spasmodie romantiche han stancato il mondo, – nè per dilettantismo letterario – bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! – No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.
Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più chiaramente a quel che avevo.
Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui – avrei detto – ci sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica», c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. – Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.
Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo… – «il sapere» disse Shakespeare «è l'ala con cui si sale al Cielo» – , e immaginatelo quest'uomo precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza… Il meglio della mia vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. Nel nulla!
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