Alla conquista di un impero. Emilio Salgari
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Название: Alla conquista di un impero

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ segno di inquietudine; poi il maggiordomo che montava un magnifico makna, ossia un elefante maschio senza zanne, diede il segnale della fermata per servire la colazione agli ospiti del suo signore.

      Gli scikari rizzarono in pochi minuti un’ampia e bellissima tenda di seta rossa in forma di padiglione e copersero il suolo con dei soffici tappeti di Persia, mentre il babourchi, ossia il cuoco della spedizione, aiutato da alcuni sais, cioè palafrenieri, faceva scaricare dal makna del maggiordomo le sue provviste onde servire una colazione fredda.

      Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano affrettati a prendere possesso della tenda, essendo il caldo intensissimo. Kammamuri ed i sei malesi della scorta, si erano invece rifugiati sotto un immenso tamarindo che spandeva, sotto i suoi lunghissimi e flessibili rami un’ombra benefica.

      L’aria del mattino aveva aguzzato straordinariamente l’appetito dei cacciatori, sicché gli ospiti del rajah fecero molto onore alla curree bât che inaffiarono abbondantemente con birra e toddy, la dolce e piccante bevanda indiana che è gradevolissima anche ai palati europei.

      Il maggiordomo, dopo d’aver sorvegliato la distribuzione dei viveri, li aveva raggiunti, sedendosi però ad una certa distanza dal mylord inglese.

      – Ti aspettavamo, – disse Yanez, che si era coricato su un ampio cuscino di seta rossa per fumare con maggior comodità. – E questa tigre dove la scoveremo?

      – Il jungaul barsath (re della jungla) a quest’ora si riposerà nella sua tana, – rispose il maggiordomo. – Non sarà che verso sera o di buon mattino che noi la incontreremo.

      Non ama il sole, mylord.

      – Sai approssimativamente dove noi la incontreremo?

      – Quattro giorni or sono, fu vista nei dintorni dello stagno di Janti; anzi là divorò una donna che conduceva una mucca onde si abbeverasse.

      – La mucca scappò in tempo?

      – La bâgh non si è occupata dell’animale. Ora che si è abituata alla carne umana non desidera che quella.

      – Che abbia il suo covo in quei dintorni? – chiese Sandokan.

      – Sì, deve trovarsi fra i bambù della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata due volte da uno scikaro.

      – Questa sera potremo trovarci a quello stagno?

      – Prima del tramonto vi giungeremo, – rispose il maggiordomo.

      – Volete che tendiamo una imboscata colà? – chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e Tremal-Naik. – Se quella bestia è così astuta e diffidente, non si lascerà accostare dagli elefanti.

      – Era quello che pensavo anch’io, – disse il portoghese.

      – A che ora riprenderemo le mosse? – chiese Tremal-Naik al maggiordomo.

      – Alle quattro, sahib.

      – Possiamo approfittare per schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. —

      Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli.

      Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno.

      Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse.

      La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts.

      – Avanti! – aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese.

      La carovana si mosse di buon passo, sempre coll’ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi.

      Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi.

      Era il principio della jungla umida, il regno dell’acto bâgh beursah (la tigre signora) come l’hanno chiamata i poeti indiani.

      Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall’avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa.

      Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero.

      Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all’indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s’allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura.

      Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall’alto della cassa, al di là d’una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d’acqua.

      – Ecco lo stagno della tigre nera, – disse.

      Quasi nell’istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante.

      – Che cosa c’è dunque? – chiese il portoghese al mahut.

      – I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, – rispose l’indiano.

      – Che sia passata per di qua?

      – Certo, sahib. I cani non latrerebbero così.

      – E quando passata? Di recente?

      – Solo i cani potrebbero saperlo.

      – Il tuo elefante non dà alcun segno d’agitazione?

      – Nessuno finora.

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