Mubarrak rimase in piedi per alcuni istanti, sorretto più dalla spada di Gacel che dalle proprie gambe e, quando l’altro estrasse l’arma lacerando la sua parete intestinale, rimase disteso sulla sabbia, piegato in due su se stesso, deciso a sopportare in silenzio, senza un lamento, la lunga agonia che il destino gli preparava.
Poco dopo, mentre il suo carnefice si incamminava, lentamente, né felice né orgoglioso, verso la cavalcatura che lo aspettava, la vecchia sdentata entrò nella più grande delle jaimas, prese un fucile, lo caricò, arrivò fino a dove suo figlio si torceva dal dolore senza un lamento e glielo puntò alla testa.
Mubarrak aprì gli occhi e lei lesse in quello sguardo Pinfinito ringraziamento di un essere che stava per essere liberato da lunghe ore di sofferenza senza speranza.
Gacel sentì lo sparo nel momento in cui il suo cammello riprendeva la marcia, ma non si voltò indietro.
Avvertì in lontananza, più che vederlo, un branco di antilopi e questo gli ricordò quanto grande fosse la sua fame.
Aveva passato i due giorni precedenti mangiando solo alcune manciate di farina di miglio e datteri, preoccupato per il suo scontro con Mubarrak, ma in quel momento la sola idea di un buon pezzo di carne che si cuoceva lentamente su un fuoco di brace gli rivoltò le budella.
Si avvicinò lentamente al bordo della grara guidando per la cavezza il suo cammello, attento che il vento non ne portasse l’odore fino alle bestie che pascolavano la vegetazione corta e dispersa della depressione che in tempi molto remoti doveva essere stata una laguna o l’allargamento di un fiumiciattolo e che conservava ancora nelle sue viscere resti di umidità.
Timidi tamarischi e una mezza dozzina di acacie nane erano sparsi qua e là, e fu contento di verificare che il suo istinto di cacciatore gli era stato fedele ancora una volta, perché lì in fondo una famiglia di magnifici animali dalle lunghe corna e dal pelo rossiccio
che brucava o dormiva al sole dell’imbrunire sembrava invitarlo a sparare.
Caricò il fucile con una sola pallottola, poiché così evitava la tentazione, se sbagliava il primo colpo, di provarne un secondo alla disperata quando le agili bestie avessero ormai intrapreso la fuga a grandi salti. Gacel sapeva per esperienza che il secondo tiro, quasi a caso, raramente faceva centro e significava uno spreco, mentre invece le munizioni, nel deserto, erano tanto rare e necessarie quanto la stessa acqua.
Lasciò libero il mehari che cominciò subito a pascolare disinteressandosi di ciò che non fosse il suo alimento, rivitalizzato e reso appetitoso dalla pioggia caduta, e avanzò in silenzio, quasi trascinandosi, da una roccia al ritorto tronco di un arbusto; da una piccola duna a un cespuglio, fino a raggiungere infine il luogo adatto, un monacello di pietra dal quale dominava, a meno di trecento metri di distanza, la snella figura del grande maschio del branco.
«Quando abbatti un maschio un altro più giovane prende immediatamente il suo posto e copre le sue femmine», gli aveva detto suo padre. «Quando uccidi una femmina, stai uccidendo anche i suoi figli e i figli dei suoi figli, che dovranno alimentare i tuoi figli e i figli dei tuoi figli.»
Preparò la sua arma e mirò con attenzione al petto, all’altezza del cuore. A quella distanza un colpo in testa era senza dubbio più efficace, ma Gacel, da buon musulmano, non poteva mangiare carne che non fosse stata uccisa con il muso rivolto verso La Mecca, pronunciando le preghiere che’aveva ordinato il Profeta. Uccidere l’antilope in quel modo sarebbe stato come sprecarla, e preferiva correre il rischio che scappasse ferita, perché sapeva bene che con una pallottola nei polmoni non sarebbe arrivata molto lontano.
L’animale alzò improvvisamente il muso, annusò il vento e si innervosì leggermente. Poi, dopo quella che gli sembrò un’eternità, ma che non furono più di due minuti, gettò lo sguardo sul branco assicurandosi che non corresse pericolo e riprese a mordicchiare un tamarisco.
Quando fu completamente sicuro che non poteva sbagliare e che l’animale non avrebbe fatto un salto al l’improvviso o iniziato un movimento strano, Gacel tirò dolcemente il grilletto, la pallottola partì con un urlo rigando il vento e l’antilope cadde in ginocchio come se le avessero segato le quattro zampe o il suolo fosse improvvisamente salito verso di lei come per magia.
Le sue femmine lo guardarono senza interesse né paura, perché anche se lo sparo aveva rintronato l’ambiente non era legato all’idea di pericolo e morte, e solo quando videro giungere l’uomo che correva con le vesti al vento brandendo un coltello cominciarono a correre per perdersi di vista nella pianura.
Gacel arrivò fino alla preda ferita che fece un ultimo sforzo per sollevarsi e seguire il suo branco, ma qualcosa dentro di lei si era rotto e niente obbediva al comando della sua mente. Soltanto i suoi occhi, enormi e innocenti, rispecchiarono la grandezza della sua angoscia quando il targui la prese per le corna, gli rivoltò il muso verso La Mecca e la sgozzò con un taglio deciso della sua affilata sciabola.
Il sangue sgorgò a zampilli schizzandogli i sandali e il bordo del jaique, ma Gacel non ci badò, soddisfatto nel verificare che la sua mira ancora una volta era stata eccellente e che aveva colpito la preda nel punto desiderato.
Il tramonto lo sorprese mentre stava ancora mangiando e le prime stelle non erano ancora apparse che già
dormiva, protetto dal vento da un cespuglio e riscaldato dalla brace del focolare.
Lo svegliò il ridere delle iene che accorrevano al richiamo dell’antilope morta e vide che giravano intorno anche gli sciacalli, per cui alimentò il fuoco che li allontanò fino al limite delle ombre e rimase così sdraiato con la faccia al cielo, ascoltando il vento e meditando sul fatto che quel giorno aveva ucciso un uomo, il primo che uccideva nella sua vita, e questo significava che la vita non poteva essere più la stessa da allora in poi.
Non si sentiva colpevole, perché considerava giusta la sua causa, ma lo preoccupava la possibilità che si trasformasse in una di quelle scatenanti guerre fra tribù di cui aveva tanto sentito parlare dagli anziani, nelle quali arrivava un momento in cui nessuno sapeva più la causa delle morti, né il nome del promotore. E i tuareg, i pochi imohag che ancora vagavano per i confini del deserto, fedeli alle loro tradizioni e leggi, non potevano eliminarsi gli uni con gli altri, perché dovevano già impegnarsi a difendersi come potevano dall’avanzata della civiltà.
Rievocò la strana sensazione che aveva percorso il suo corpo, quando la sua sciabola era penetrata blandamente, quasi senza sforzo, nel ventre di Mubarrak e gli sembrò di udire ancora il rauco rantolo che era uscito dalla sua gola in quell’istante. Ritirando il braccio fu come se si fosse portato via appesa alla punta della sua takuba la vita del suo nemico ed ebbe paura della possibilità di usare nuovamente la sua sciabola contro qualcuno. Ma poi ricordò il secco rintronare dello sparo che aveva ucciso il suo ospite addormentato e lo consolò l’idea che non poteva esistere perdono per i colpevoli СКАЧАТЬ