Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9. Giannone Pietro
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СКАЧАТЬ Ecclesiastico giudicarlo, col pretesto che si sia abusato del confugio.

      Bastava, per non far valere la Bolla di Gregorio, la sola frequenza de' delitti ed il tanto numero delle Chiese: di che poteva il Conte di Benavente, per governo del Regno a se commesso, prender ancora ammaestramento dalla sapienza del Senato Romano, il quale, secondo che narra Tacito6, crescendo tuttavia in molte città della Grecia l'abuso di multiplicarsi gli Asili, tanto che quelle città erano ripiene d'uomini scelleratissimi, per la licenza che lor dava l'immunità di quelli, con danno gravissimo dello Stato, reputò il Senato, a cui Tiberio avea commesso tal affare, che dovesse restringersi il numero degli Asili.

      Il Conte pertanto, per reprimere con maggior vigore la pretensione degli Ecclesiastici, ne scrisse al Re sin da' 30 maggio del 1603; e non cessando quelli di proseguir l'impresa, raddoppiò l'istanza a' 19 luglio 1606, pregandolo a dar pronto rimedio ad un tanto abuso; poichè di continuo i Ministri Regj aveano differenza sopra ciò con gli Ecclesiastici, li quali volevano in ogni modo eseguire la Bolla di Gregorio, e perciò non tralasciavano contra quelli di fulminar monitorj e scomuniche, ch'era lo stesso, che perturbare il Regno, e mandare a terra la Regal Giurisdizione7. Dopo fatte queste rappresentazioni al Re, essendo accaduto in Napoli, che a due Nobili venuti fra loro in urta, per tema di maggior pericolo, si fosse ingiunto mandato Regio di non partirsi dalle loro case; costoro poco di ciò curando si fecer lecito di passeggiar per la città, non ostante il divieto, ed incontratisi, cimentandosi a duello, ne rimase uno estinto: l'uccisore con un suo compagno, ch'era Cavaliere Gerosolimitano, ed un servidore, tosto si salvarono nel Convento di S. Caterina a Formello de' PP. Domenicani. Ma non fece lor valere l'Asilo il Conte di Benavente; poichè avendo fatto circondare il Convento da due compagnie di Spagnuoli, e da quella del Capitan Alfonso Modarra, gittate a terra le porte, amendue col servidore furono estratti, fatti prigioni e condotti nelle carceri della Vicaria; e giudicata la causa, nel mese di maggio del 1610 fu fatto mozzar il capo all'uccisore, risparmiando la vita al Cavaliere, a riguardo dell'abito di S. Giovanni che portava.

      Non mancò subito il Vicario dell'Arcivescovo di Napoli di dichiarar scomunicati il Reggente ed Avvocato Fiscale di Vicaria, con affiggere cedoloni ancora contra il Capitan Modarra e' suoi soldati, e contra il Caporale e' soldati della guardia del suddetto Reggente, che aveano rotte e fracassate le porte del Monastero ed estratti i rifugiati; ma il Vicerè non tralasciò immantenente a' 6 del detto mese di mandar una grave ortatoria al Vicario, che dichiarasse nulle tali censure, e togliesse i cedoloni; e nell'istesso dì ne mandò un'altra per via d'ambasciata al Nunzio, fattagli dal Segretario del Regno Andrea Salazar, che desse ordine al Vicario, che levasse i cedoloni, siccome a' 10 del medesimo se ne replicò un'altra al Vicario8; tanto che colla restituzione del Cavalier Gerosolimitano nelle mani del suo Giudice competente, fu composto l'affare, nè si parlò più di Bolla. Distese con tal occasione il Reggente di Fulvio di Costanzo Marchese di Corleto una scrittura, che volle drizzarla al Pontefice Paolo V, dove con molta evidenza dimostrava di doversi togliere, o almeno moderare la Costituzione di Gregorio.

      Ma questi ricorsi avuti in Roma furon sempre inutili; onde non tralasciandosi dagli Ecclesiastici di farla valere, quando loro veniva in acconcio, fu nel Pontificato di Clemente X preso espediente, di mandar in Roma due Ministri per ottener qualche riforma agli abusi dell'immunità Ecclesiastica, uno per lo Stato di Milano, che fu il Visitator Casati, e l'altro per lo Regno di Napoli, che fu il Consigliere allora Antonio di Gaeta, poi Reggente, trascelto dal Conte di Pegneranna, che dopo il Viceregnato di Napoli, era passato in Madrid al posto di Presidente del Consiglio d'Italia. Compose ancora il Consigliere Gaeta una dotta scrittura sopra questo soggetto, e la indirizzò pure al Pontefice Clemente X ed al Marchese d'Astorga, che si trovava allora Ambasciadore in Roma; ma la missione fu inutile, siccome riuscirono in appresso sempre vani i ricorsi, che sopra ciò s'ebbero in Roma vanamente lusingandoci, che da quella Corte si potesse la Bolla riformare; onde ora non rimane altro rimedio, se non che accadendo, che gli Ecclesiastici vogliano procedere a scomuniche per far valere la Bolla (quando si è voluto usare la debita vigilanza) s'è di lor presa severa vendetta, con discacciarli dal Regno, sequestrar le loro rendite, e carcerare i loro parenti; siccome a' tempi nostri fu praticato nel governo del Conte Daun, ch'essendosi con molto scandalo di tutta la città fulminate censure contra i Giudici e l'Avvocato Fiscale di Vicaria per essersi estratta da un forno attaccato ad una Chiesa una venefica, che avea commesse infinite stragi, e tuttavia nel luogo stesso del rifugio stava fabbricando veleni; fu con modi non tanto strepitosi, quanto applauditi da tutti, cacciato dalla città e Regno il Vicario dell'Arcivescovo, cacciati i suoi Ministri, imprigionati i cursori, che ebbero ardimento d'affigger i cedoloni, e sequestrate l'entrate all'Arcivescovo istesso.

      Mentre con tanta vigilanza il Conte di Benavente amministrava il Regno, pervenne avviso in Napoli, che il Re Filippo, secondo le insinuazioni de' Favoriti, da' quali reggevasi la Monarchia, avea disegnato per suo successore il Conte di Lemos figliuolo di D. Ferdinando; ond'egli con molto dispiacere, e più della Contessa sua moglie, s'apparecchiò a riceverlo per cedergli il Governo; e giunto il Lemos nel mese di giugno di quest'anno 1610 nell'Isola di Procida, fu egli ad incontrarlo, e quantunque l'avesse pregato ad entrare e stanziare in Palagio, non volle il Lemos partire da quell'Isola per dar maggior agio al predecessore di disporsi alla partenza. Partì finalmente il Conte di Benavente da Napoli a' 11 del seguente mese di luglio, dopo aver governato il Regno per lo spazio poco più di sette anni. Lasciò di se monumenti ben illustri della sua giustizia (della quale fu oltremodo zelante) e della sua magnificenza. Egli magnifico in tutte le occasioni, che se gli presentarono in tempo del suo governo, come si vide nelle feste, che fece celebrare nel 1605 per la natività di Filippo Principe delle Spagne: e nel 1607 per la nascita dell'Infante D. Ferdinando, quegli, che sotto il nome di Cardinal Infante si rese cotanto celebre al Mondo per la vittoria ottenuta agli Svizzeri presso Norlinghen. Alla sua magnificenza dobbiamo quelle ampie e Regali strade, una, che conduce a Poggio Reale ornata di bellissimi alberi e d'amenissime fonti: l'altra, che dal Regio Palagio conduce a S. Lucia, nobilitata da una vaghissima Fontana, adornata di Statue d'esquisitissima scultura, siccome egli fu, che fece costruire il Ponte, ed innalzare quella magnifica Porta della città, che conduce al Borgo di Chiaja, volendo, che dal suo cognome si fosse chiamata Porta Pimentella; e sotto i suoi auspicj fu fabbricato il Palagio destinato per uso ed abitazione degli Ufficiali, che assistono alla conservazione de' grani riposti ne' pubblici granai per l'Annona della città. Nell'Isola d'Elba, posta ne' mari di Toscana, a lui dobbiamo il Forte Pimentello: siccome nel Regno que' magnifici Ponti della Cava, di Bovino e di Benevento.

      Egli ci lasciò più di cinquanta Prammatiche tutte savie e prudenti. Regolò per quelle le Fiere del Regno, e comandò, che fossero celebrate ne' tempi stabiliti ne' loro privilegi e non altramente: proibì severamente l'asportazione delle arme corte, e fu terribile contra i falsari e contra i giocatori; e diede altri salutari provvedimenti intorno alla pubblica Annona, che secondo furono stabiliti, possono vedersi nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

      CAPITOLO III

      Del Governo di D. Pietro Fernandez di Castro Conte di Lemos; e suoi ordinamenti intorno all'Università de' nostri Studi, perchè presso noi le discipline e le lettere fiorissero

      Don Pietro di Castro fu figliuolo di D. Ferdinando, che morì in Napoli essendovi Vicerè, e fratello di D. Francesco, che governò pure il Regno in qualità di Luogotenente lasciatovi da suo padre in vigor di facoltà concedutagli dal Re. Giunto in Napoli trovò il Regno non pur esausto, ma il Patrimonio Reale e la pubblica Annona in debito di più milioni, in guisa, che nè la città avea modo di provveder di frumenti i granai, nè la Cassa Militare di pagar le soldatesche. Ma applicatosi egli a favorire le Comunità del Regno, acciò fossero più pronte a pagare i tributi dovuti al Re: a far rivedere i conti, così delle Regie entrate, come della città: a riparar le frodi, che si commettevano dagli amministratori di esse: a porre i libri in registro: e sopra tutto vegghiando, che si spendesse fruttuosamente il denaro, accrebbe l'Erario del Principe e la pubblica Annona, tanto СКАЧАТЬ



<p>6</p>

Tacit. l. 3. Annal. c. 31.

<p>7</p>

Chiocc. loc. cit.

<p>8</p>

Chiocc. loc. cit.