La Calandria. Dovizi Bernardo
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Название: La Calandria

Автор: Dovizi Bernardo

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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      La Calandria / Commedie del Cinquecento

INTERLOCUTORI

      PROLOGO

      ARGUMENTO

      FESSENIO servo

      POLINICO precettore

      LIDIO adulescentulo

      CALANDRO

      SAMIA serva

      RUFFO negromante

      SANTILLA

      FANNIO servo

      FULVIA moglie di Calandro

      MERETRICE

      FACCHINO

      SBIRRI di dogana.

      PROLOGO [DEL CASTIGLIONE]

      Voi sarete oggi spettatori d'una nova commedia intitulata Calandria: in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina. Calandria detta è da Calandro el quale voi troverrete sí sciocco che forse difficil vi fia di credere che Natura omo sí sciocco creasse giá mai. Ma, se viste o udite avete le cose di molti simili, e precipue quelle di Martino da Amelia (el quale crede la stella Diana essere suo' moglie, lui essere lo Amen, diventare donna, Dio, pesce ed arbore a posta sua), maraviglia non vi fia che Calandro creda e faccia le sciocchezze che vedrete. Rappresentandovi la commedia cose familiarmente fatte e dette, non parse allo autore usare il verso; considerato che e' si parla in prosa, con parole sciolte e non ligate. Che antiqua non sia dispiacer non vi dee, se di sano gusto vi trovate: per ciò che le cose moderne e nove delettano sempre e piacciono piú che le antique e le vecchie; le quale, per longo uso, sogliano sapere di vieto. Non è latina: però che, dovendosi recitare ad infiniti, che tutti dotti non sono, lo autore, che piacervi sommamente cerca, ha voluto farla vulgare; a fine che, da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti. Oltre che, la lingua che Dio e Natura ci ha data non deve, appresso di noi, essere di manco estimazione né di minor grazia che la latina, la greca e la ebraica: alle quali la nostra non saria forse punto inferiore se la esaltassimo, la osservassimo, la polissimo con quella diligente cura che li greci e altri ferno la loro. Bene è di sé inimico chi l'altrui lingua stima piú che la sua propria. So io bene che la mia mi è sí cara che non la darei per quante lingue oggi si trovano. E cosí credo intervenga a voi. Però grato esser vi deve sentire la commedia nella lingua vostra. Avevo errato: nella nostra, non nella vostra, udirete la commedia; ché a parlare aviamo noi, voi a tacere. De' quali se sia chi dirá lo autore essere gran ladro di Plauto, lassiamo stare che a Plauto staria molto bene lo essere rubato per tenere, il moccicone, le cose sua senza una chiave, senza una custodia al mondo; ma lo autore giura, alla croce di Dio, che non gli ha furato questo (facendo uno scoppio con la mano); e vuole stare a paragone. E, che ciò sia vero, dice che si cerchi quanto ha Plauto e troverrassi che niente gli manca di quello che aver suole. E, se cosí è, a Plauto non è suto rubbato nulla del suo. Però non sia chi per ladro imputi lo autore. E, se pure alcuno ostinato ciò ardisse, sia pregato almeno di non vituperarlo accusandolo al bargello; ma vada a dirlo secretamente nell'orecchio a Plauto. Ma ecco qua chi vi porta lo Argumento. Preparatevi a pigliarlo bene, aprendo ben ciascuno il buco de l'orecchio.

      PROLOGO [DEL BIBBIENA]

      Oh che tranquillo sonno e che piacevol sogno m'ha rotto ser Giuliano con quella suo' voce da camera, che gli venga il canchero! Se mi donassi il miglior poder ch'egli abbi, non mi ristorerebbe del piacere che m'ha tolto svegliandomi. Io dormiva qua come un tasso e sognava d'aver trovato l'anel d'Angelica; quell'anel, dico, che chi lo portava in bocca non poteva esser veduto da persona. Pensate or voi, donne mie, se io era allegro di sí fatta ventura! Io faceva pensiero di andarmene invisibile alle casse di certi pigoloni avaracci, a' quali non si trarrebbe un grosso delle mani con le tanaglie di Nicodemo, e quivi volevo fare un ripulisti di tal sorte che non rimanessi loro un marcio quatrino. In ogni modo egli è un peccato che cotali miseracci abbin del fiato, poi che, per non spendere un soldo, tengano a patti quasi di lasciarsi morir di fame. Alle spese loro volevo io ragunar tanti denari che io comprassi due bonissime porzioni: chi sarebbe poi stato meglio di me, dite il vero? Pensava poi di vedere tutte le donne di Firenze quando si levano: e forse che i' non arei potuto farlo, potendo andar per tutto senza esser veduto! – So – diceva io – che non gioverá far meco lo schizzinoso di non voler esser vedute, perché le giugnerò in lato che non potranno nascondermisi! – E giá mi pareva essere a' ferri, quando, cosí dormendo, mi ricordai che stasera si faceva una veglia. – Orsú – diss'io – in anzi che i' faccia altro, vo' dare una scorribandola per queste case e vedere quel che fanno quelle donne che vi sono invitate. – Fatto il pensiero, mi pongo l'anello in bocca; e, parendomi di non poter esser veduto, entro in una casa. E truovo che 'l marito faceva un grande afrettare la moglie che andassi via presto, e non le dava tanto agio che la poveretta si potessi a pena assettare. Maraviglia'mi di tanta fretta che colui le faceva; e, considerando molto bene a ogni cosa, m'aveggo che il galantuomo aveva fatto assegnamento adosso alla fante, e però gli pareva mill'anni di levarsi la moglie dinanzi. Non vi dico se mi gonfiò lo stommaco vedendo che colui faceva sí poca stima della moglie giovane e bella, per andar dietro a una fante: e, s'io avessi potuto, l'arei confinato in una cucina a succiar broda e a leccare strofinacci, poi che n'è sí giotto; e starebbe, la state, molto bene a questi tali. Basta che poi si scusano con dire: «Ogni cosa è me' che moglie». Mi partii di quivi, mezzo sdegnato con lui; e, giunto in un'altra casa, truovo la moglie e il marito che facevano un gran contendere insieme. Ella piangeva, e voleva pur venir alla veglia, e diceva al marito: – Se voi non volevi che io v'andassi, bisognava dirlo prima e non mi lassar promettere. Voi volete pure che ognuno sappia chi voi sète, che maladetto sia il punto e l'ora che io mi maritai! cosí poteva io farmi monaca, se non ho mai a avere un piacere come l'altre. – Ben, be' – rispondeva il marito geloso, – veglie, eh? veglie, eh? Se tu volessi bene al tuo marito, tu non ti cureresti d'andarvi. Tu non sai bene quel che si fa a queste veglie. Statti, statti in casa meco; e sará molto meglio che andar notticon tutta notte. – Deh sí, lasciatemi andare – soggiugneva ella: – alle veglie si va una volta l'anno, e vaccene tante de l'altre: avete voi paura ch'io non sie mangiata? – Che belle parole! che vuol dir mangiata, cervellinuzza? – disse il geloso. – Oh! sta' costí, e non mi romper piú la testa. – Io messi mano a un legno, con animo di dargli venticinque bastonate per fargli uscire la gelosia del capo: ma pensai poi che fusse meglio lasciarne far la vendetta a lei, che, se sará savia, com'io credo, lo fará esser geloso di qualcosa. E forse che ci mancano e' giovani sfaccendati, in questa cittá! E' gli fará il dovere al dappochello: gli è ben vero che la gelosia non vien da altro che da dappocaggine. Anda'mene in un altro luogo: e trovai che la padrona si aveva messo il brigante in casa e, per non venire alla veglia, dava ad intendere al marito che un suo bambino, o bambina che si fusse, si sentiva male; e, per farlo piangere, non restava di pizzicarlo, talché 'l poverino né con lusinghe né con altro si rachetava. Onde ella diceva: – Vedi, marito mio, io non voglio lasciare questo povero bambino a guardia di fante e non son per venire alla veglia altrimenti. Ma facciam cosí: vavvi tu, acciò che non paia che noi faccián poca stima di chi ci ha invitati. – Il buono uomo, per non sentir quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al figliuolo, si uscí di casa e dette campo franco alla moglie, piú aveduta e piú savia di lui. Parvemi d'entrar poi in una altra casa e trovare la padrona che si faceva affibbiar dalla fante e le diceva: – Uh, sciocca, dappocuza! ancor non sai tu affibbiare una vesta? Comínciati di sotto, in malora! – A cui la fante rispondeva: – E che noia dá, che importa cominciarsi di sotto o di sopra? Quando io affibbiava quell'altra mia padrona, io cominciava pur sempre di sopra. – Sai tu perché? – rispondeva la padrona: – perché ella ha troppe le puppe grosse, e cominciavasi di sopra per tirarsele in giú a poco a poco acciò non apparissino sí ritte. Ma io, perché son magra ed ho il petto piccolo, bisogna, se io non voglio parer fatta colla pialla, che mi cominci affibbiar di sotto, acciò che io abbia un poco di apparienzia e non paia una spigolista; ben sai! – Oh quanto mi risi di questa astuzia da donne! Trova'ne, doppo questa, un'altra, piú vana che una zucca secca; la quale si stava in una sua anticameretta СКАЧАТЬ