Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele
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Название: Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

Автор: Amari Michele

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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isbn: http://www.gutenberg.org/ebooks/46888

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СКАЧАТЬ parricidio e il fratricidio (903). Poscia, tra le vicende della guerra, salì pur sempre la parte sciita. Non solo tutta la gente kotamia, ma anco altre popolazioni berbere seguiron volentieri un capo che promettea la venuta del Messia e quanto prima soggiogati tutti i popoli della Terra, e fatto spuntare il sole di Ponente; e dava pur qualche arra de' prodigii. Arra la vittoria, il bottino, la propria temperanza, austerità, abnegazione, l'abolizione del kharâg o diciamo tributo territoriale, antichissimo sopruso degli Arabi sopra i Berberi: e questo ribelle, entrato a Tobna, e recatogli il danaro pubblico, rendeva il kharâg ai possessori musulmani; aboliva le tasse non prescritte nel Corano o nella Sunna; e bandiva ai popoli che ormai non avrebbero ad osservare altre leggi che i sacri testi. All'incontro i sudditi fedeli pagavan troppo caro le vergogne di Ziadet-Allah. Gli eserciti, accozzati di stanziali e avanzi del giund, che è a dire di tormentatori e tormentati, marciavano di pessima voglia; e talvolta sbaragliavansi pria di venire alle mani, non ostante gli immensi appresti d'armi e macchine da guerra; e quali capitani lor potea dare tal principe? Entro pochi anni, Abu-Abd-Allah minacciò la metropoli dell'Affrica (907). Il tiranno, provatosi a far grande armamento e montare a cavallo egli stesso, tornò addietro spaurito a Rakkâda, rifatta sede della corte aghlabita; afforzolla con mura di mattoni e mota;248 affidò l'esercito, troppo tardi, ad un uom di guerra di sangue aghlabita, per nome Ibrahim-ibn-abi-Aghlab; la cui virtù non valse che a ritardare la vittoria del nemico. Di marzo novecento nove, Ziadet-Allah, all'avviso di un'ultima sconfitta d'Ibrahim, tenendosi spacciato e tradito da costui, dal primo ministro, dai soldati, dai cittadini, si deliberò a fuggire incontanente. Dà voce di riportata vittoria; fa tagliar le teste ai miseri che teneva in carcere e condurle a trionfo per le strade di Kairewân, come se fossero dei nemici uccisi in battaglia; e intanto a Rakkâda, ch'era discosta a quattro miglia, entro il palagio si caricavano trenta cameli d'arredi preziosi, oro, gioielli; mille Schiavoni della guardia erano messi in ordinanza, e dato loro a portar mille dinar d'oro per cadauno; le mogli e le più gradite concubine del tiranno montavano in lettiga. Al cader del giorno ei con la corte cavalcò in fretta alla volta di Tripoli, per passare indi in Egitto.

      Risaputa la quale fuga, tutta Rakkâda sgombrò, ch'era soggiorno di scrivani e servidori di corte: a lume di fiaccole tante famigliuole, con loro robe preziose, correano per la campagna su le orme del principe. Ma il popolaccio di Kairewân, invidioso e turbolento, piombò la dimane sopra la città regia; per sei giorni continui frugò le case cercando tesori sepolti, e portò via masserizie; finchè comparve la vanguardia di Kotâma, che ricacciollo alla capitale. Dove la schifosa anarchia della paura avea consumato, in questo mezzo, quel po' di forza vitale che rimaneva alla schiatta arabica. Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, usando un attimo di favor popolare, convocò i giuristi, i capi delle famiglie nobili della città e i principali mercatanti; lor disse, che se Ziadet-Allah se n'era fuggito, tanto meglio; poichè la mala fortuna se ne andrebbe con quel poltrone; or si potrebbe far la guerra; lo aiutassero di danari ed egli saprebbe rannodare l'esercito, salvar l'onore e la dominazione degli Arabi: per Dio non si dessero in mano di quelle frotte di vinti rivoltati, di barbari settatori d'un eretico, calpestatori d'ogni legge. Ma i notabili risposero, al solito, ferocemente a chi parlava di onore e di pericoli; conchiusero che il danaro lor serviva a ricattare dalla schiavitù sè stessi e le famiglie; e replicando Ibrahim che si potean togliere i capitali dei lasciti pii, l'adunanza gridò sacrilegio. Sdegnosamente uscì Ibrahim dalla sala; e in piazza ebbe a soffrire gli insulti della plebe che ripeteva a modo suo gli argomenti dei barbassori, e dava mano anco ai sassi: se non che l'Aghlabita con uno stuol di cavalli si fe' largo caricando fino alle porte della città. Audace, anzi temerario, andò a Tripoli, sperando di scuotere Ziadet-Allah; e per poco non incontrò la sorte del primo ministro; il quale s'era imbarcato per la Sicilia, ma i venti lo spinsero a Tripoli, nelle mani del tiranno, ch'egli avea confortato alla difesa, e or n'ebbe in merito la morte. Ziadet-Allah, chiesta licenza dal califo abbassida, soggiornò or in Egitto or in Siria, sperando sempre che il califo riconquistasse l'Affrica per lui; e mentre aspettava, rubato dai proprii servitori, ammonito per sue infami dissolutezze dai magistrati, vilipeso da' governanti, impoverito, invecchiato in pochissimi anni, morì (916) di malattia o di veleno.249 Così cadde dopo un secolo la dinastia d'Aghlab.

      Finì con vergogna non minore la dominazione degli Arabi in Affrica. La municipalità di Kairewân, sbrigatasi da quella molesta virtù d'Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, mandava in fretta oratori allo Sciita poc'anzi scomunicato con tanta rabbia dai giuristi; il quale era entrato a Rakkâda (26 marzo 909) con sue miriadi di Berberi. Il vincitore accordò l'amân, distogliendo a gran fatica i capi di tribù di Kotâma dal promesso saccheggio di Kairewân. Nè solamente assicurò vita e sostanze al popolo della capitale, e a quanti altri si sottomettessero, ma anco alla parentela degli Aghlabiti e ai condottieri del giund. Prepose agli oficii pubblici molti capi kotamii e qualche giureconsulto arabo sciita; rinnovò i simboli della moneta, bandiere, atti pubblici, senza porvi nome di principe; mutò due parole nell'idsân, o diremmo appello alla preghiera;250 del rimanente non molestò gli ortodossi; nè sparse altro sangue, che degli schiavi negri soldati di casa d'Aghlab. D'ogni parte dell'Affrica propria, gli Arabi sottometteansi ad uom sì civile che tenea in pugno trecentomila barbari. Non che i cittadini, piegavan la fronte i nobili del giund; non sentendosi forza di salvar sè stessi e i figliuoli dalla schiavitù;251 onde credeano uscirne a buon patto se non perdean altro che la dominazione. E al solito avvenne che il giogo si aggravò quando l'ebbero assestato sul collo.

      Perchè lo Sciita tra non guari risegnava il comando. Sembra che tanti anni innanzi, i capi kotamii iniziati a Ikgiân non avessero voluto mettere a rischio vita e sostanze senza sapere per chi; onde lo Sciita lor additava il custode del gran segreto in Selamia di Siria. Andativi i messaggi di Kotâma, trovarono Sa'îd-ibn-Hosein; il quale, richiesto di svelare il pontefice, rispose “son io,” aggiugnendo chiamarsi, per vero Obeid-Allah; e infilzava una genealogia fino ad Ismaele, e da questi ad Ali e Fatima, figliuola del Profeta. Indi l'appellazione di Fatemita che usurpò questa dinastia persiana, detta altrimenti Obeidita, dal nome del primo monarca. In sul trono non le mancaron poi dottori che provassero genuina la parentela con Ali; mentre i dottori di parte abbassida la negavano con pari asseveranza: gli argomenti pro e contro rimasero per mantener viva la lite, tra gli eruditi musulmani più moderni; e fin oggi dotti europei han creduto alla legittimità dei Fatemiti.252 Ma Abu-Abd-Allah lo Sciita, vero fondator del califato d'Affrica, non mi par complice di quell'albero genealogico falsato per tiro del Gran Maestro.

      Trapelando intanto il segreto, e sendo venuto Obeid-Allah in sospetto ai luogotenenti del califo in Siria, per quei misteriosi andamenti e visite di stranieri, fuggissi in Egitto col giovanetto Abu-l-Kasem, che dovea far la parte di Alida, s'ei nol potesse.253 Apparve in questa fuga, mirabile effetto dell'affiliazione ismaeliana: quegli occhi d'Argo che spiavan sopra le spie del governo; quelle mani pronte e fedeli per ogni luogo; e la verga dell'oro che veniva a sciogliere tutti i nodi. Accortosi Obeid-Allah che gli Abbassidi lo cercassero in Egitto, lor tolse la traccia, passando a Tripoli d'Affrica e di lì a Segelmessa, città su le falde meridionali del Grande Atlante, in oggi decaduta e soggetta a Marocco, allora capitale del principato dei Beni-Midrâr, berberi, eretici di setta Sifrita e independenti degli Aghlabiti. S'appresentò come ricco mercatante che bramasse far soggiorno nel paese; entrò in grazia del regolo, per nome Eliseo; e si tenea sicuro, quando Ziadet-Allah diè avviso a quei di Segelmessa che il capo di cotesta setta sterminatrice dell'Affrica si ascondesse appo di lui. Perciò caddero i sospetti sul mercatante straniero; e fu sostenuto, interrogato, confrontato col figlio e coi famigliari e costoro torturati a frustate; ma tutti negavano e parlavano a un modo. Eliseo non s'appose al vero, finchè lo Sciita, trionfante a Rakkâda, non gli domandava con lusinghe e promesse, la liberazione d'Obeid-Allah. Ricusò; gittò le lettere in faccia agli ambasciatori; e li fe' mettere a morte. Lo Sciita, dicon le croniche, tremando per Obeid-Allah, dissimulava l'insulto; tornava a pregare; e di nuovo gli furono uccisi i messaggi. Allor con gran furore mosse di Rakkâda (maggio 909) sopra Segelmessa.

      E forse in suo segreto il men che СКАЧАТЬ



<p>248</p>

Rendo così la voce arabica tâbia, donde lo spagnuolo tapia e credo anco il siciliano taju. In quest'ultima voce la b par mutata dapprima, alla greca, in v, e poscia dileguata nell'j.

<p>249</p>

Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 286 recto, seg., an. 296; Ibn-Khallikân, Wefiât-el-'Aiân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 465; Baiân, tomo I, p. 133 a 147, e Cronica di Gotha, presso Nicholson, p. 83 a 91; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 150 a 156; Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 441 a 447; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 113 a 115.

<p>250</p>

Secondo i Sunniti era: “Venite alla preghiera ch'è migliore del sonno.” Gli Sciiti corressero: “Venite alla preghiera ch'è l'opera migliore.”

<p>251</p>

Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 137, 141 a 149, e Cronica di Gotha, versione di Nicholson, p. 64, 92, 96, seg.; Makrizi, presso Sacy, Crestomathie Arabe, tomo II, p; 115; Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. CCLXX, seg.

<p>252</p>

Veggansi le autorità citate da M. Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. CCXLVII, seg., e Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88 a 92 e 95; e da M. Quatremère, Journal Asiatique, août 1836, p. 99, seg., il primo dei quali sostiene e l'altro confuta le pretensioni dei Fatemiti. Si aggiungano: Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 6 verso; Baiân, tomo I, p. 292, seg.; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 37 verso. Non cadendo in dubbio che Sa'îd, o vogliam dire Obeid-Allah, discendesse da El-Kaddâh, i partigiani dei Fatemiti dovean provare la parentela di El-Kaddâh con Ali; ma niuno l'ha fatto.

<p>253</p>

Questo aneddoto è narrato nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 7 recto, dove Abu-l-Kasem non è detto figliuolo d'Obeid-Allah, come questi lo spacciò e come scrivono tutti gli altri cronisti.