I Promessi Sposi. Alessandro Manzoni
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Название: I Promessi Sposi

Автор: Alessandro Manzoni

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.

      – No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: – coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente, – si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.

      CAPITOLO VIII

      Carneade! Chi era costui? – ruminava tra se don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. «Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!

      Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.

      – A quest’ora? – disse anche don Abbondio, com’era naturale.

      – Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo…

      – Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire… Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?

      – Diavolo! – rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: – dove siete? – Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome.

      – Buona sera, Agnese, – disse Perpetua: – di dove si viene, a quest’ora?

      – Vengo da… – e nominò un paesetto vicino. – E se sapeste… – continuò: – mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.

      – Oh perché? – domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, – entrate, – disse, – che vengo anch’io.

      – Perché, – rispose Agnese, – una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro…

      – Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?

      – Non me lo domandate, che non mi piace metter male.

      – Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!

      – Basta… ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.

      – Guardate se si può inventare, a questo modo! – esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: – in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo – Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.

      In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.

      – Deo gratias, – disse Tonio, a voce chiara.

      – Tonio, eh? Entrate, – rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.

      Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.

      – Ah! ah! – fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.

      – Dirà il signor curato, che son venuto tardi, – disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.

      – Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?

      – Oh! mi dispiace.

      – L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perché vi siete condotto dietro quel… quel figliuolo?

      – Così per compagnia, signor curato.

      – Basta, vediamo.

      – Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, – disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.

      – Vediamo, – replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.

      – Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.

      – È giusto, – rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: – va bene?

      – Ora, – disse Tonio, – si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.

      – Anche questa! – disse don Abbondio: – le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?

      – Come, signor curato! s’io mi fido? Lei СКАЧАТЬ