Название: Il Terrore Privato Il Terrore Politico
Автор: Guido Pagliarino
Издательство: Tektime S.r.l.s.
Жанр: Полицейские детективы
isbn: 9788873043195
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“Ti ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare all’età di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. L’aveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. S’era ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, com’era nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato all’inizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva ch’era stato immediato l’innamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota d’uno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male agl’innocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i vent’anni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato d’infarto l’anno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano subentrati. Gente seria, tutta dedita al lavoro e incapace di sperperare, s’erano fatta meritatamente una buona fortuna, restituendo i prestiti e poi investendo nell’azienda, creando posti di lavoro e, a mano a mano, impiegando denaro pure in qualche appartamento. Avevano sempre e solo lavorato duro e avrebbero meritato elogi e, mai e poi mai, attacchi dai dipendenti, ch’essi tenevano doverosamente in regola e che pagavano puntualmente, a differenza di certi concorrenti. Invece, dal 1976 l’azienda era stata aggredita dal personale, nel disprezzo per i sacrifici continui dei miei genitori. Ovviamente contrariavano pure me, anzi anche di più perché avevo avuto quella che si usa dire la pappa fatta”.
“Era stata un’ingiustizia, Attilio”, gli era stato solidale don Giulio, avvicinatosi di più, ponendogli la mano destra sulla spalla sinistra; e così Vittorio aveva notato che il prete non era mancino.
Il mio amico aveva chiesto all’architetto: “Quando, precisamente, lei era entrata in azienda?”
“Alla fine del 1975, a ventisei anni. Fino ad allora avevo vissuto la parte migliore della mia vita, sino a quando cioè, laureatomi in architettura e svolto il servizio militare, ero stato associato in ditta dai miei. Con l’aggravarsi in generale della protesta sociale, anche da noi gli attacchi erano divenuti duri, e, peggio, s’erano ulteriormente appesantiti dopo che avevamo assunto, quasi contemporaneamente, due elementi negativissimi: Maria Capuò, la nana come la si chiamava tra di noi, ché credo non superasse il metro e quarantacinque, e Giovanna Peritti, la Pasionaria di Mirafiori com’ella stessa si vantava d’esser chiamata dai suoi compagni di partito. Erano presto divenute le caporione dei contestatori della nostra vulnerabile aziendina familiare. A causa dei sistematici attacchi del personale, il morale di noi tre proprietari s’era sempre più depresso. In piena protesta aziendale, la mia sofferenza e quella di mia madre s’erano aggravate, e di molto, perché era morto mio padre, per un ictus, provocato indirettamente, ne sono certo, da quella Giovanna Peritti: il giorno prima della sua morte, così lui ci aveva poco dopo riferito, papà le aveva dato una disposizione e lei, senza neppur ascoltarlo sin in fondo, l’aveva insultato dicendogli: ‘Vecchio scemo, cosa ne capisci tu che sei un fascista?!’ dandogli una spinta che, essendo lui piuttosto anziano, l’aveva buttato a terra. Non c’erano stati testimoni, ovviamente, anche noi eravamo di là, in ufficio, la donna era furba e se l’era cavata senza pagare pegno: mancando testimoni sarebbe stato inutile denunciarla, anzi dannoso, e senza denuncia non era stato possibile mandarla via, a causa dello Statuto dei Lavoratori”.
“Avevate dunque molti dipendenti”.
“No, questore, ma più di quindici sì, purtroppo, numero oltre il quale lo Statuto imponeva di fornire la cosiddetta giusta causa per poter licenziare: anche alle aziendali familiari come la nostra”.
“Quanto personale avevate, di preciso?”
“Diciotto, in quel periodo: mai stati una grossa impresa. Era stata quell’ingenua di mia madre a condurci oltre il confine dei quindici lavoratori. La mamma, senza conoscere la legge né informare mio padre e me, nel 1976 aveva assunto contemporaneamente, per di più senza chiedere informazioni su di loro, un apprendista operaio, bravo ragazzo peraltro, un certo Piero, e tre individui che si sarebbero ben presto rivelati sovversivi, Maria Capuò, Giovanna Peritti e Ruggero Rigoletti; così la mamma, povera donna, aveva portato irresponsabilmente il nostro organico da quattordici a diciotto elementi. Poi quel Rigoletti, dopo aver combinato i suoi bravi disastri, s’era licenziato, e… ah, sì! anni dopo avrei saputo ch’era diventato un brigatista rosso e che l’avevano arrestato e condannato, e credo che sia tuttora in galera…”
“…hmm…”
“…proprio così; ma a parte questo, dopo le sue dimissioni il personale era sì sceso, ma restando purtroppo di diciassette elementi, sempre troppi, lo Statuto restava in vigore; ed esso stabiliva anche il diritto dei dipendenti all’organizzazione interna aziendale, il che significava continui confronti fra noi e il comitato sindacale”.
“Chi faceva parte del comitato?”
“Si trattava proprio dei cinque ammazzati dal Mostro; no, aspetti, prima c’era stato quel Rigoletti, non Alessandro Cipolla che gli era subentrato quando l’altro s’era dimesso”.
Era intervenuto don Colamonti, con tono ed espressione preoccupati: “Attilio, tutte ’ste cose sono davvero utili?”
“Perché, forse…”
“…eh, sì. Sei un brav’uomo, ma stai rischiando ingiustamente di far pensare male di te”. Il parroco s’era indirizzato a Vittorio: “Sono il confessore d’Attilio, le assicuro che è una bravissima persona e che non porta rancori a nessuno”.
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